No al licenziamento della lavoratrice madre in caso di chiusura di un reparto

La deroga al divieto di licenziamento durante il periodo di tutela della lavoratrice madre in caso di cessazione dell’attività di azienda non si può estendere all’ipotesi di chiusura di un reparto.

Lo afferma la Suprema Corte con la sentenza n. 18363 del 31 luglio 2013. La vicenda . Una lavoratrice impugnava il licenziamento che le era stato intimato da una s.r.l. alla fine di una procedura di licenziamento collettivo. La lavoratrice apprendeva del licenziamento e della circostanza che questo era stato motivato dalla chiusura del centro estetico dove prestava la propria attività con una lettera inviatale durante il periodo di astensione dal lavoro per maternità. Il giudice del gravame in riforma della sentenza di primo grado dichiarava la nullità del licenziamento, ordinando il ripristino del rapporto di lavoro e, quindi, condannava la società al pagamento di tutte le retribuzioni maturate dalla data del licenziamento a quella in cui era stata offerta l’assunzione presso un'altra società dello stesso gruppo, proposta che la lavoratrice aveva rifiutato. Secondo la Corte di appello non si può applicare al caso in specie la deroga al divieto di licenziamento durante il periodo di maternità prevista dall’art. 54, d.lgs. n. 151/2001 in relazione all’ipotesi di cessazione dell’attività di azienda essendo questo un caso di chiusura di un reparto. Il giudice di seconde cure, inoltre, ha precisato che anche qualora si volesse estendere la deroga all’ipotesi di chiusura di un reparto, questo avrebbe richiesto la prova, da parte della società, dell’impossibilità di utilizzare la lavoratrice in altri reparti dell’azienda. La controversia giungeva quindi in Cassazione su ricorso della società a responsabilità limitata, la quale riteneva, in primo luogo, che il riferimento alla cessazione di azienda” contenuto nel suddetto art. 54 quale ipotesi di deroga al divieto di licenziamento della lavoratrice madre, include anche il concetto di unità produttiva e di vendita costituente un ramo di azienda”, concetto distinto da quello di reparto. La s.r.l., inoltre, lamentava che non spettasse ad essa l’onere della prova in relazione alla possibilità di ricollocazione aziendale in caso di licenziamento collettivo con cessazione di un reparto autonomo. Il quadro normativo . La Suprema Corte ricorda che l’art. 54, d.lgs. n. 151/2001 prevede che le lavoratrici non possono essere licenziate dall’inizio del periodo di gravidanza fino al termine dei periodi di interdizione dal lavoro, nonché fino al compimento di un anno di età del bambino. La norma aggiunge che il divieto di licenziamento opera in connessione con lo stato oggettivo di gravidanza, e la lavoratrice, licenziata nel corso del periodo in cui opera il divieto, è tenuta a presentare al datore di lavoro idonea certificazione dalla quale risulti l'esistenza all'epoca del licenziamento, delle condizioni che lo vietavano. Si sottolinea, tuttavia, che il divieto di licenziamento non si applica nel caso di colpa grave da parte della lavoratrice, costituente giusta causa per la risoluzione del rapporto di lavoro di cessazione dell'attività dell'azienda cui essa è addetta di ultimazione della prestazione per la quale la lavoratrice è stata assunta o di risoluzione del rapporto di lavoro per la scadenza del termine di esito negativo della prova resta fermo il divieto di discriminazione di cui all'art. 4, legge 10 aprile 1991, n. 125, e successive modificazioni. La norma prevede inoltre che durante il periodo nel quale opera il divieto di licenziamento, la lavoratrice non può essere sospesa dal lavoro, salvo il caso che sia sospesa l'attività dell'azienda o del reparto cui essa è addetta, sempreché il reparto stesso abbia autonomia funzionale. La lavoratrice non può altresì essere collocata in mobilità a seguito di licenziamento collettivo ai sensi della legge 23 luglio 1991, n. 223, e successive modificazioni, salva l’ipotesi di collocamento in mobilità a seguito della cessazione dell’attività dell’azienda cui essa è addetta. Deroga al divieto di licenziamento solo in caso di cessazione di attività dell’azienda alla quale la lavoratrice è addetta. Dalla lettera della suddetta disposizione emerge, dunque, che solo in caso di cessazione dell’attività dell’intera azienda è possibile il collocamento in mobilità della lavoratrice madre. Pertanto, la Cassazione afferma che in tema di tutela della lavoratrice madre, la deroga al divieto di licenziamento prevista dall’art. 54, comma 3, lett. b , d.lgs. n. 151/2001, opera nell’ipotesi di cessazione di attività dell’azienda alla quale la lavoratrice è addetta ed è insuscettibile di interpretazione estensiva ed analogica. Di conseguenza, al fine di evitare l’applicazione del divieto è necessario che sussistano entrambe le condizioni previste dalla su citata lettera b , ossia che il datore di lavoro sia un’azienda e che vi sia stata la cessazione dell’attività. È possibile interpretare estensivamente la deroga al divieto? In proposito, la Suprema Corte ricorda che precedenti pronunce avevano interpretato la suddetta disposizione nel senso che il licenziamento fosse possibile - come previsto all'ultimo comma dello stesso articolo per la deroga all'analogo divieto di sospensione della lavoratrice nello stesso periodo della gravidanza e del puerperio - anche nel caso di cessazione dell'attività del reparto cui essa è addetta, sempre che il reparto abbia autonomia funzionale, ed a condizione che il datore di lavoro assolva l'onere probatorio - a proprio carico - circa l'impossibilità di utilizzare la lavoratrice presso altri reparti dell'azienda. Quindi, la deroga al divieto di licenziamento non può essere esclusa per il solo fatto che, presso altro reparto dell'azienda, la forza lavoro sia integrata con personale non iscritto a libro matricola, dovendosi anche in tale ipotesi accertare la possibilità di collocare utilmente la dipendente nel reparto stesso cfr. Cass. n. 23684/2004 . Tuttavia, tale orientamento non era univoco, potendosi rintracciare numerosi arresti secondo cui il licenziamento collettivo per riduzione di personale - che presuppone la permanenza in vita dell'azienda - non è equiparabile all'ipotesi di licenziamento per cessazione dell'attività della azienda, sicché è solo verificandosi tale ipotesi la quale dà luogo ad una pluralità di licenziamenti individuali per giustificato motivo oggettivo che viene meno, ai sensi del comma 3 dell'art. 2 della l. 30 dicembre 1971 n. 1204 tutela delle lavoratrici madri , il divieto, stabilito dal comma 1 dello stesso articolo, di licenziare le lavoratrici dall'inizio del periodo di gestazione fino al termine del periodo d'interdizione dal lavoro previsto dall'art. 4 della stessa legge, nonché fino al compimento di un anno di età del bambino si veda, ex multis , Cass. n. 6236/1986 . L’ipotesi di cessazione di azienda non comprende il concetto di unità produttiva e di vendita di un ramo di azienda. La Cassazione aderisce all’orientamento più restrittivo, sostenendo che le disposizioni che prevedono entro limiti precisi e circoscritti deroghe al generale divieto di licenziamento della lavoratrice madre dall'inizio del periodo di gestazione fino al compimento di un anno di età del bambino, riferibili a casi in cui l'estinzione del rapporto si presenta come evento straordinario o necessitato, non possono essere interpretate in senso estensivo. Pertanto la disposizione della lettera b del citato articolo - che nel periodo suddetto consente al datore di lavoro di recedere dal rapporto nel caso di cessazione dell'attività dell'azienda - non può essere intesa come comprensiva del caso di cessazione dell'attività di un singolo reparto dell'azienda, seppur dotato di autonomia funzionale, atteso che il legislatore ha considerato tale articolazione dell'azienda solo nell'ultimo comma dello stesso art. 2, disponendo che nel periodo in cui opera il divieto di licenziamento la lavoratrice non può essere sospesa dal lavoro, salvo che sia sospesa l'attività dell'azienda o del reparto al quale la medesima è addetta, sempreché il reparto abbia autonomia funzionale. È il datore di lavoro che deve provare l’impossibilità di altra collocazione. La Suprema Corte, inoltre, evidenzia come gravi sul datore di lavoro l’onere di fornire la prova dell’impossibilità di ogni altra utile collocazione della lavoratrice in altri rami dell’azienda diversi da quello la cui attività sia cessata. Si precisa che la prova non potrebbe ricavarsi in via indiretta dal solo dato costituito dal numero di unità in esubero indicate all’avvio della procedura, superiori a quelle poi effettivamente estromesse dall’azienda, non potendosi riscontrare l’appartenenza delle unità eccedenti alla stessa qualifica di appartenenza della lavoratrice. Tuttavia, come affermato da precedenti arresti della giurisprudenza di legittimità, l'onere della prova relativo all'impossibilità di diverso impiego per il dipendente licenziato deve essere mantenuto entro limiti di ragionevolezza, sicché può considerarsi assolto anche mediante il ricorso a risultanze di natura presuntiva e indiziaria in tal senso, cfr. Cass. n. 14093/2001 . Interpretazione restrittiva della deroga al divieto di licenziamento. In conclusione, la Cassazione rigetta il ricorso proposto dalla s.r.l. datrice di lavoro, affermando l’interpretazione strettamente letterale e non suscettibile di estensione delle deroghe al divieto di licenziamento.

Corte di Cassazione, sez. Lavoro, sentenza 26 marzo - 31 luglio 2013, numero 18363 Presidente Vidiri – Relatore Blasutto Svolgimento del processo B.V. impugnava dinanzi al Tribunale di Torino il licenziamento intimatole il 18.1.2007 dalla Belle Epoque s.r.l., società facente parte del Gruppo spagnolo Corporaciòn Dermoestetica, in esito ad una procedura di licenziamento collettivo avviata in data omissis e motivata dalla chiusura del centro estetico di omissis , dove la ricorrente prestava la propria attività di receptionist. Di ciò la ricorrente era stata informata con lettera del OMISSIS durante il periodo di astensione dal lavoro per maternità. La Corte di appello di Torino, riformando la sentenza di primo grado, ravvisava la violazione dell'art. 54 d.lgs. numero 151/2001 Testo unico della disposizioni legislative in materia di tutela e sostegno della maternità e paternità dichiarava la nullità del licenziamento, ordinando il ripristino del rapporto di lavoro, e condannava la società appellata al pagamento di tutte le retribuzioni maturate dalla data del licenziamento a quella in cui era stata offerta alla B. l'assunzione presso altra società del gruppo con sede lavorativa in , proposta rifiutata dalla lavoratrice. Osservava che non poteva trovare applicazione la deroga al divieto di licenziamento durante il periodo di tutela della lavoratrice madre, prevista dall'art. 54 d.lgs. numero 151/2001, che riguardava il caso di cessazione dell'attività di azienda e che pure nel caso che si volesse estendere la deroga all’ipotesi di chiusura di un reparto per la deroga all'analogo divieto di sospensione dal lavoro previsto per la lavoratrice nello stesso periodo di gravidanza e del puerperio , ciò avrebbe richiesto l'assolvimento dell'onere probatorio da parte della società dell'impossibilità di utilizzare la lavoratrice in altri reparti dell'azienda, potendo solo in tale caso configurarsi la prospettata assimilazione, agli effetti della deroga, della chiusura di un singolo reparto alla cessazione dell'attività di azienda. Rilevava che, nella fattispecie, la società Belle Epoque, oltre al centro estetico di , gestiva altre cinque unità locali, site in omissis , e di queste solo quella di Catania era stata del pari soppressa, mentre le altre quattro avevano continuato ad operare regolarmente. Riguardo alla possibilità di ricollocazione lavorativa, la società si era limitata ad affermare che al momento del licenziamento non vi erano altre possibilità di impiego nell'ambito aziendale di tale allegazione, vertente su un fatto negativo, la società avrebbe dovuto fornire la dimostrazione mediante fatti positivi. In particolare, la Belle Epoque avrebbe dovuto allegare quali fossero i posti di pari professionalità esistenti nel proprio organico nelle sue quattro unità locali ancora operanti di omissis , alla data del licenziamento e per un congruo tempo successivo, e poi provare che tutti quei posti di lavoro erano occupati e che non vi erano state nuove assunzioni di personale con le medesime mansioni, ma tale prova non era stata offerta. Tale sentenza è ora impugnata dalla Belle Epoque s.r.l. in liquidazione, che ne chiede la cassazione sulla base di due motivi. Resiste con controricorso la lavoratrice, che propone a sua volta ricorso incidentale condizionato affidato a tre motivi. A tale impugnazione resiste con controricorso la soc. Belle Epoque in liquidazione. Motivi della decisione Con il primo motivo la ricorrente principale denuncia violazione e falsa applicazione dell'art. 54 d.lgs. numero 151/2001 e vizio di motivazione art. 360 cod. proc. civ., nnumero 3 e 5 . La Corte di appello aveva erroneamente assimilato il centro estetico condotto dalla convenuta ad un reparto anziché ad un ramo di azienda , autonomo e separato, avente una propria clientela, un'autonoma organizzazione dell'attività con proprio personale e con costi e ricavi direttamente ed esclusivamente imputabili ad esso. Dovendo il ramo di azienda assimilarsi, quanto a disciplina applicabile, all’impresa nella sua interezza, la cessazione di esso comporta l'operatività della deroga di cui al quarto comma dell'art. 54 d.lgs. citato. Formula quesito di diritto con cui chiede a questa Corte di affermare che il riferimento alla cessazione di azienda , contenuto nell'art. 54 L. numero 151/2001 quale ipotesi di deroga al divieto di licenziamento della lavoratrice madre, comprende anche il concetto di unità produttiva e di vendita costituente un ramo di azienda e che tale ultimo concetto è distinto da quello di reparto. Con il secondo motivo la società ricorrente lamenta violazione di legge, in relazione agli artt. 2697 cod. civ. e 421 cod. proc. civ., e vizio di motivazione art. 360 cod. proc. civ., nnumero 3 e 5 sulla ripartizione dell'onere probatorio circa la possibilità di ricollocazione aziendale in caso di licenziamento collettivo con cessazione di un reparto autonomo. Deduce, per l'ipotesi di mancato accoglimento del primo motivo, avente carattere assorbente, che la lavoratrice nulla aveva dedotto quanto all'effettiva disponibilità a trasferirsi presso un'altra regione, né in merito all'esistenza di posizioni effettivamente vacanti. La procedura di mobilità aveva inizialmente interessato diciannove unità, poi ridotte a tredici a seguito di confronto con le 00.SS., e conseguentemente non poteva ragionevolmente ritenersi che, a fronte di un organico ridotto meno di quanto ipotizzato, vi fossero carenze tali da consentire la ricollocazione aziendale della lavoratrice. Inoltre, la società aveva chiesto l'ammissione della prova testimoniale con un capitolo di prova vertente sulla circostanza relativa all'inesistenza di altri impieghi e aveva prodotto documenti comprovanti la completezza dell'organico al momento del licenziamento. Conclude formulando un quesito di diritto con cui chiede a questa Corte di affermare che, ai sensi dell'art. 2697 c.c., in caso di licenziamento della lavoratrice madre intimato nell'ambito di una riduzione collettiva di personale a seguito di cessazione di un reparto autonomo, l'onere di provare la possibilità di impiego diverso nell'ambito dell'azienda grava sulla lavoratrice. Con ricorso incidentale condizionato B.V. denuncia vizio di omessa motivazione su fatti controversi e decisivi art. 360 cod. proc. civ., numero 5 vertenti sull'accertamento della violazione della procedura di cui alla legge numero 223/91, questione rimasta assorbita nell'accoglimento del primo motivo di gravame. Segnatamente, con il primo motivo di ricorso incidentale denuncia la mancata comparazione, ai fini della scelta dei lavoratori ex art. 5 legge numero 223/91, con i dipendenti aventi analoga professionalità appartenenti alle imprese italiane del Gruppo Corporacion Dermoestetica S.A Secondo quanto rappresentato dalla stessa datrice di lavoro, tale gruppo imprenditoriale controlla direttamente in Italia le società Corporacion Dermoestetica s.r.l. società italiana , la quale a sua volta controlla le società operanti in Italia nel settore estetico, tra cui la Belle Epoque si è dunque in presenza di un Gruppo societario costituente struttura soggettivamente ed oggettivamente unitaria. Con il secondo motivo deduce la mancata comparazione, ai fini dell'applicazione dei criteri di scelta ai sensi dell'art. 5 cit., tra tutti i dipendenti delle unità locali di OMISSIS della società Belle Epoque nella comunicazione di avvio della procedura ex art. 4 e 24 L. numero 223/91 la società aveva omesso qualsiasi riferimento a specifiche esigenze tecnico produttive riferibili a OMISSIS ed aveva individuato aprioristicamente i soggetti in esubero solo perché operanti in tali unità produttive, mentre la procedura, interessando lavoratori addetti a mansioni fungibili, avrebbe dovuto comportare la comparazione delle posizioni di tutti i dipendenti con pari professionalità presenti nelle varie unità locali, anziché limitare l'espulsione ai soli addetti alle unità locali soppresse. Con il terzo motivo denuncia omessa motivazione circa l'indicazione delle modalità di applicazione dei criteri di scelta previsti dall'art. 5 della legge 223/91, non essendo stato esternato il procedimento logico seguito nel darvi applicazione la società si era limitata ad affermare di avere osservato i criteri di legge, senza indicare la modalità concrete attraverso le quali aveva proceduto alla scelta. Il ricorso principale è infondato, restando assorbito l'incidentale condizionato. Quanto al primo motivo di ricorso, deve rilevarsi che il giudice di merito ha qualificato i centri estetici gestiti dalla soc. Belle Epoque come unità locali, ossia articolazioni territoriali di un'unica impresa e non entità organizzative autonome e ne ha assimilato la relativa disciplina a quella propria dei reparti aziendali. Tale qualificazione - implicante l'esame di elementi di fatto acquisiti al processo - compete al giudice di merito nella specie la censura di omessa o insufficiente motivazione mossa dalla società al giudizio sotteso a tale qualificazione non identifica esattamente quale fatto decisivo sarebbe stato trascurato, risolvendosi in una generica prospettazione di autonomia del centro estetico di Torino, a sua volta desumibile dal fatto - apoditticamente affermato - che questo aveva proprio personale, propri costi e ricavi . Vengono richiamate al riguardo le comunicazioni prodotte sub docc. nnumero 6 e 7 del fascicolo di primo grado , delle quali si omette di trascrivere il contenuto, impedendo così a questa Corte di potere apprezzare la significatività e decisività del dato asseritamente trascurato. Tale omissione integra violazione del principio di autosufficienza del ricorso per cassazione, il quale trova la propria ragion d'essere nella necessità di consentire al giudice di legittimità di valutare la fondatezza del motivo senza dover procedere all'esame dei fascicoli di ufficio o di parte e che vale anche in relazione ai motivi di appello rispetto ai quali si denuncino errori da parte del giudice di merito Cass. numero 86 del 10.1.2012 . Quando, in particolare, venga dedotto un vizio di omessa o insufficiente motivazione per l'asserita mancata valutazione di atti processuali o di prove documentali, il ricorrente ha l'onere non solo di indicarne specificamente il contenuto, eventualmente mediante trascrizione del testo integrale o della parte significativa dell'atto o del documento nel ricorso per cassazione, al fine di consentire il vaglio di decisività, ma anche di specificare gli argomenti, deduzioni o istanze che, in relazione alla pretesa fatta valere, siano stati formulati nel giudizio di merito, e quindi la rilevanza processuale di tali atti o documenti al fine di pervenire ad una diversa decisione, risultando altrimenti irrilevante la carenza di motivazione denunziata cfr. ex multis Cass. 18506/2006, Cass. 14973/2006, Cass. 12362/2006, Cass. 9396/2006, Cass. 7610/2006, Cass. 10598/2005, Cass. 6323/2004, Cass. 996/2003, Cass. 10945/2002, Cass. 849/2002 . La censura vertente sul vizio di motivazione è dunque inammissibile. Quanto alla denunciata violazione di legge, deve osservarsi quanto segue. Il d. lgs. 26 marzo 2001 numero 151, art. 54 - per la parte che qui interessa - dispone, al primo comma, che le lavoratrici non possono essere licenziate dall'inizio del periodo di gravidanza fino al termine dei periodi di interdizione dal lavoro previsti dal Capo III, nonché fino al compimento di un anno di età del bambino al terzo comma, che il divieto di licenziamento non si applica nel caso .b di cessazione dell'attività dell'azienda cui essa è addetta al quarto comma, che durante il periodo nel quale opera il divieto di licenziamento, la lavoratrice non può essere sospesa dal lavoro, salvo il caso che sia sospesa l'attività dell'azienda o del reparto cui essa è addetta, sempreché il reparto stesso abbia autonomia funzionale. La lavoratrice non può altresì essere collocata in mobilità a seguito di licenziamento collettivo ai sensi della legge 23 luglio 1991, numero 223, e successive modificazioni . Il d.lgs. 23 aprile 2003, numero 115 Modifiche ed integrazioni al decreto legislativo 26 marzo 2001, numero 151, recante testo unico delle disposizioni legislative in materia di tutela e sostegno della maternità e della paternità, a norma dell'articolo 15 della legge 8 marzo 2000, numero 53 , all'art. 4, secondo comma, ha previsto che Al comma 4 dell'articolo 54 del testo unico dopo le parole e successive modificazioni sono inserite le seguenti salva l'ipotesi di collocamento in mobilità a seguito della cessazione dell'attività dell'azienda di cui al comma 3, lettera b . Per effetto di tale modifica, il testo dell'art. 54, quarto comma, seconda parte, è divenuto il seguente La lavoratrice non può altresì essere collocata in mobilità a seguito di licenziamento collettivo ai sensi della legge 23 luglio 1991, numero 223, e successive modificazioni, salva l'ipotesi di collocamento in mobilità a seguito della cessazione dell'attività dell'azienda di cui al comma 3, lettera b . Il tenore testuale della norma indica che solo in caso di cessazione dell'attività dell'intera azienda è possibile il collocamento in mobilità della lavoratrice madre, in quanto l'art. 54, terzo comma, lettera b , del d.lgs. numero 151 del 2001 prevede la non applicabilità del divieto di licenziamento di cui al comma 1 nell'ipotesi di cessazione dell'attività dell'azienda alla quale la lavoratrice è addetta. Trattandosi di norma che pone un'eccezione ad un principio di carattere generale e cioè quello fissato dall'art. 54, comma 1, di divieto del licenziamento della lavoratrice che si trovi nelle condizioni ivi specificate , essa è di stretta interpretazione e non è suscettibile di interpretazione estensiva o analogica. Ritiene quindi il Collegio di dare continuità al principio di diritto affermato da questa Corte nella sentenza numero 10391 del 2004 secondo cui, in tema di tutela della lavoratrice madre, la deroga al divieto di licenziamento dettato dall'art. 54 del d.lgs. numero 151 del 2001 - secondo cui è vietato il licenziamento della lavoratrice dall'inizio del periodo di gravidanza fino al termine del periodo di interdizione dal lavoro, nonché fino al compimento di un anno di età del bambino - prevista dall'art. 54, comma terzo, lettera b , del medesimo decreto, opera nell'ipotesi di cessazione di attività dell'azienda alla quale la lavoratrice è addetta ed è insuscettibile di interpretazione estensiva ed analogica ne consegue che, per la non applicabilità del divieto devono ricorrere entrambe le condizioni previste dalla citata lettera b , ovvero che il datore di lavoro sia un'azienda, e che vi sia stata cessazione dell'attività. La giurisprudenza di legittimità aveva in precedenza interpretato la locuzione cessazione dell'attività di azienda come estensibile alla soppressione di un ramo o reparto del tutto autonomo e salva la prova del repechage Cass. 21.12.2004 numero 23684, conf. Cass. 8.9.1999 numero 9551 , enunciando tale principio nell'ambito di fattispecie regolate dalla legge numero 1204/71. Questa, seppure all'art. 2, comma 3, lett. b conteneva una previsione analoga a quella dell'art. 54, comma terzo, lettera b del d.lgs. 30 dicembre 151 del 2001, al quarto comma era priva della specificazione del divieto di collocamento in mobilità a seguito di licenziamento collettivo, salva l'ipotesi della cessazione dell'attività dell'azienda introdotta dal legislatore del 2001 in funzione rafforzativa della tutela della lavoratrice madre. La collocazione di tale previsione dopo quella relativa alla sospensione dal lavoro la lavoratrice non può essere sospesa dal lavoro, salvo il caso che sia sospesa l'attività dell'azienda o del reparto cui essa è addetta, sempreché il reparto stesso abbia autonomia funzionale costituisce un'indicazione interpretativa che porta a ritenere che quello che costituiva il parametro comune assunto dalla giurisprudenza per giungere ad assimilare l'ipotesi di cessazione dell'attività di un ramo o reparto autonomo a quella dell'intera azienda, ai fini dell'operatività delle deroga al divieto legale, non sia più validamente richiamabile per le fattispecie regolate come quella in esame dal d.lgs. 26 marzo 2001, numero 151 e che, dunque, non sia argomentabile l'estensione interpretativa prima sostenuta. Peraltro, anche nella vigenza della legge numero 1204 del 1971, l'orientamento di questa Corte non era univoco. La sentenza numero 1334 del 1992 aveva infatti affermato che le disposizioni dell'art. 2 legge 30 dicembre 1971 numero 1204, che prevedono entro limiti precisi e circoscritti deroghe al generale divieto di licenziamento della lavoratrice madre dall'inizio del periodo di gestazione fino al compimento di un anno di età del bambino, riferibili a casi in cui l'estinzione del rapporto si presenta come evento straordinario o necessitato, non possono essere interpretate in senso estensivo. Pertanto la disposizione della lettera b del citato articolo - che nel periodo suddetto consente al datore di lavoro di recedere dal rapporto nel caso di cessazione dell'attività dell'azienda - non può essere intesa come comprensiva del caso di cessazione dell'attività di un singolo reparto dell'azienda, seppur dotato di autonomia funzionale, atteso che il legislatore ha considerato tale articolazione dell'azienda solo nell'ultimo comma dello stesso art. 2, disponendo che nel periodo in cui opera il divieto di licenziamento la lavoratrice non può essere sospesa dal lavoro, salvo che sia sospesa l'attività dell'azienda o del reparto al quale la medesima è addetta, sempreché il reparto abbia autonomia funzionale. Nella sentenza numero 1334/92 è stato osservato che mediante il divieto di licenziamento stabilito dal citato art. 2, primo comma, la legge speciale del 1971 ha inteso garantire alla lavoratrice madre, con riguardo ad interessi costituzionalmente rilevanti art. 31, secondo comma, e 37, primo comma, Cost. , la conservazione durante l'indicato periodo del posto di lavoro, in connessione con lo stato di gravidanza e puerperio, predisponendo una tutela ampia ed incisiva così da prevedere, come possibile deroga all’anzidetto divieto, soltanto in casi in cui l'estinzione del rapporto si presenta come evento straordinario o necessitato. Infatti, gli altri due casi previsti alle lettere a e c dell'art. 2, terzo comma, sono rispettivamente quelli di colpa grave della lavoratrice, costituente giusta causa per la risoluzione del rapporto di lavoro con riferimento ad una causa che non consente la prosecuzione, anche provvisoria, del rapporto a norma dell'art. 2119 C.C. e di ultimazione della prestazione per la quale la lavoratrice è stata assunta o di risoluzione del rapporto per scadenza del termine con riferimento al contratto di lavoro a tempo determinato in cui la data finale di cessazione del rapporto è espressamente stabilita, ovvero lo è indirettamente in coincidenza con l'ultimazione di una specifica prestazione cfr. Cass. numero 24 del 1986 . La previsione entro limiti precisi e circoscritti delle deroghe al generale divieto di licenziamento non consente un’interpretazione estensiva di tali ipotesi derogatorie, nel senso che il legislatore minus dixit quam voluit, dovendosi al contrario ritenere, con riguardo al caso di cessazione dell'attività dell'azienda, che ove avesse inteso ricomprendere in tale nozione anche la cessazione dell'attività di un reparto autonomo sotto il profilo funzionale, lo avrebbe espressamente precisato sent. cit., in motivazione . Anche in altre occasioni Cass. numero 6236 del 1986 questa Corte ha affermato che il licenziamento collettivo per riduzione di personale - che presuppone la permanenza in vita dell'azienda - non è equiparabile all'ipotesi di licenziamento per cessazione dell'attività della azienda, sicché è solo verificandosi tale ipotesi che viene meno, ai sensi del terzo comma dell'art. 2 della legge 30 dicembre 1971 numero 1204 tutela delle lavoratrici madri , il divieto, stabilito dal primo comma dello stesso articolo, di licenziare le lavoratrici dall'inizio del periodo di gestazione fino al termine del periodo d'interdizione dal lavoro previsto dall'art. 4 della stessa legge, nonché fino al compimento di un anno di età del bambino. Il secondo motivo del ricorso principale - che verte sulla dimostrazione della impossibilità di ogni altra utile collocazione della lavoratrice in altre unità produttive non soppresse - presuppone l'adesione al diverso orientamento secondo cui il caso della cessazione dell'attività dell'azienda, in relazione al quale l'art. 54, terzo comma, lett. b , del d.lgs. numero 151 del 2001 - al pari dell'art. 2, terzo comma, lett. b , della legge 30 dicembre 1971 numero 1204 -prevede l'inapplicabilità del divieto di licenziamento della lavoratrice, è integrato anche dalla soppressione di un reparto organizzato avente autonomia funzionale, qualora la lavoratrice ad esso addetta non sia più utilmente collocabile in un reparto diverso. In ogni caso, pure ove si accedesse a tale interpretazione, il motivo sarebbe inammissibile. Premesso che grava sul datore di lavoro l'onere di fornire la prova dell'impossibilità di ogni altra utile collocazione della lavoratrice in altri rami dell'azienda diversi da quello la cui attività sia cessata cfr. in tal senso, Cass. 16 novembre 1985 numero 5647, 26 marzo 1982 numero 1897, 11 dicembre 1982 numero 6806 , la censura con cui la società ricorrente investe la decisione per non avere dato ingresso alla prova testimoniale è - al pari di quanto osservato in relazione al primo motivo - carente del requisito di autosufficienza, non essendo stati riportati i capitoli di prova di cui si lamenta la mancata ammissione. A ciò aggiungasi che, per quanto sommariamente riportato da parte ricorrente v. pag. 25 del ricorso i capitoli di prova riguarderebbero la verifica della inesistenza di possibilità di altri impieghi , mentre - come correttamente osservato dal giudice di appello - la dimostrazione di un fatto negativo come quello che costituiva oggetto dell'onere probatorio gravante sul datore di lavoro - avrebbe dovuto trarsi dalla prova di fatti positivi, come il fatto che i residui posti di lavoro relativi a mansioni equivalenti fossero al tempo del licenziamento stabilmente occupati o il fatto che dopo il licenziamento e per un congruo lasso di tempo non sia stata effettuata alcuna assunzione nella stessa qualifica Cass. 13 novembre 2001, numero 14093 e 9 settembre 2003 numero 13187 . Alla considerazione del giudice di appello secondo cui la prova di tali fatti positivi non era stata nemmeno offerta dalla società appellata, quest'ultima ora oppone la mancata considerazione dei documenti in atti dai quali invece tale prova si evincerebbe, e a tal fine menziona la comunicazione di avvio della procedura e l'elenco finale dei dipendenti, da cui dovrebbe evincersi tale prova. Come già osservato in ordine al primo motivo, in punto di censura di omessa o carente motivazione, il ricorso difetta di autosufficienza, non essendo stato riportato il contenuto degli atti da cui dovrebbe desumersi la prova richiesta, né questa potrebbe ricavarsi in via indiretta dal solo dato costituito dal numero di unità in esubero indicate all'avvio della procedura, superiori a quelle poi effettivamente estromesse dall'azienda, in mancanza di qualsiasi possibilità di riscontrare quanto meno l’appartenenza delle unità eccedenti alla medesima qualifica di appartenenza della lavoratrice. Le spese relative al giudizio di legittimità sono a carico della ricorrente principale, in applicazione del principio della soccombenza. P.Q.M. La Corte rigetta il ricorso principale, assorbito l'incidentale condanna la società ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio, che liquida in Euro 3.500,00 per compensi e in Euro 50,00 per esborsi, oltre accessori di legge.