Va in bagno, blitz dei rapinatori: sfortunato ma anche colpevole. Legittimo il licenziamento del vigilante, inerte durante il ‘colpo’ in banca

All’uomo è contestato l’abbandono del posto di lavoro, perché è stato eccessivo il tempo, 10 minuti, impiegato per provvedere al bisogno fisiologico e per effettuare una ricarica per il cellulare, mentre le porte continuavano a funzionare e il metal detector era disattiva. E l’aggravante è la condotta eccessivamente morbida tenuta durante la rapina non è un caso se l’arma è un elemento fondamentale per la guardia giurata

Bisogno fisiologico? Deve essere ‘portato a termine’ in tempi assolutamente minimi. Perché, in caso contrario, è legittimo, per l’azienda, contestare l’abbandono del posto di lavoro. Con tutte le pesantissime, e immaginabili, conseguenze Cassazione, sent. n. 18811/2012, Sezione Lavoro, depositata oggi . Sfortunate coincidenze Tutto l’episodio contestato si svolge in pochi minuti. Scenario è una banca, e protagonista, negativo, il dipendente dell’istituto che si occupa della vigilanza. La dinamica pare chiara l’uomo si allontana per un bisogno fisiologico e per effettuare una ricarica del proprio telefono cellulare, ma la sua assenza si protrae troppo a lungo, e, per giunta, l’istituto di credito viene preso d’assalto da un gruppo di rapinatori, favoriti, per giunta, dal metal detector disattivato precedentemente su richiesta del vigilante all’ingresso nei locali della banca con indosso la pistola di dotazione . Così, alla guardia giurata viene addebitato una serie di comportamenti tali da minare, secondo l’istituto di vigilanza, il rapporto fiduciario. Conseguenze? Licenziamento in tronco. Che viene, ovviamente, contestato dall’uomo, trovando però accoglimento solo in primo grado. Perché, in Appello, la drastica azione dell’istituto di vigilanza viene ritenuta legittima. Decisivi, secondo i giudici, non solo l’ abbandono del posto di lavoro ma anche la condotta inerte tenuta dalla guardia giurata nel corso della rapina avvenuta in banca. Pistola in pugno. Secondo l’uomo, però, il licenziamento in tronco applicato nei suoi confronti è assolutamente illegittimo. Ecco perché decide di proseguire la battaglia anche in Cassazione Elemento centrale, nel ricorso, è la sottolineatura che i comportamenti a lui addebitati costituivano un momentaneo allontanamento dal posto di lavoro , e non un abbandono ingiustificato , anche tenendo presente che l’attivazione e la disattivazione del metal detector e l’apertura e chiusura delle porte rientravano nella gestione e nella sfera di influenza del personale della banca e non della guardia giurata il cui compito era quello del piantonamento esterno . Ulteriore appunto, mosso dal legale che rappresenta l’uomo, è quello relativo alla reazione tenuta – o, meglio, non tenuta, secondo l’istituto di vigilanza – in occasione della rapina ebbene, a questo proposito, viene richiamato il Regolamento di servizio, in cui si prevede l’intervento con le armi solo in caso di attacco al servizio ‘trasporto valori’, mentre per la vigilanza fissa anti rapina prevede solo un intervento, con le modalità che le circostanze richiedono . Ma il quadro tracciato dal legale dell’uomo viene considerato non logico dai giudici della Cassazione, i quali mostrano di condividere in pieno la linea seguita in Appello. Decisiva è, in particolare, l’ assenza di idonee giustificazioni , da parte della guardia giurata, sia per l’ abbandono del posto di lavoro avvenuto senza avvertire i dipendenti della banca e protrattosi oltre il tempo necessario sia per la condotta passiva tenuta durante la rapina . Assolutamente legittimo, quindi, il provvedimento adottato dall’istituto di vigilanza. Perché, come detto, è acclarato l’abbandono del posto di lavoro, e, soprattutto, è incomprensibile il comportamento totalmente inerte tenuto dall’uomo durante la rapina, comportamento che è illogico alla luce delle indicazioni fornite dal Regolamento di servizio, laddove si stabilisce che le guardie giurate devono svolgere il loro ordinario servizio avendo in dotazione un’arma , e anche tenendo presente che nel rapporto di lavoro tra un istituto di vigilanza e le guardie giurate, l’autorizzazione al porto d’armi e l’approvazione del Questore sono necessarie .

Corte di Cassazione, sez. Lavoro, sentenza 10 – 31 ottobre 2012, n. 18811 Presidente Lamorgese – Relatore Tria Svolgimento del processo 1. La sentenza attualmente impugnata, in accoglimento dell’appello proposto dall’Istituto di vigilanza privata PERVIGILE s.r.l., in persona del legale rappresentante pro tempore, e in riforma della sentenza n. 1402/2006 del Tribunale di Nocera Inferiore, rigetta la impugnativa di G.M. avverso il licenziamento in tronco intimatogli dalla suindicata società. La Corte d’appello di Salerno, per quel che qui interessa, precisa che a non è condivisibile il ragionamento sviluppato dal primo giudice secondo cui la condotta del M. è stata giustificata dalla cogenza del sopraggiunto bisogno fisiologico e dalla necessità di trattenersi ulteriormente fuori dalla postazione di lavoro per provvedere alla ricarica del telefono cellulare b infatti, in ogni caso, sulla base di un elementare obbligo di diligenza collegato con le mansioni di guardia giurata rivestite, finalizzate alla sicurezza dell’ambiente di lavoro, il lavoratore era tenuto sia ad assicurarsi che fosse ripristinata l’operatività del sensore metal detector - che era stato disattivato su istanza del vigilante per consentirgli di entrare nei locali della banca con indosso la pistola di dotazione - sia ad avvertire qualche dipendente della banca del proprio allontanamento perché si procedesse alla immediata chiusura dell’accesso ai suddetti locali per i pochi minuti ordinariamente necessario per espletare le suddette incombenze c invece, in atti non vi è traccia dell’adozione di alcuna cautela e quanto affermato al riguardo dall’interessato, in merito ad un avvertimento effettuato al vicedirettore, non ha trovato conferma in sede istruttoria d ciò che risulta è il dato oggettivo dell’‘‘abbandono del posto di lavoro’’ al momento dell’ingresso del rapinatore, condotta di tale gravità da configurare anche per il CCNL di categoria una autonoma fattispecie di licenziamento, entre è da escludere che la fattispecie possa essere configurata come semplice ‘‘allontanamento dal posto di lavoro’’, visto che l’assenza si è prolungata - in modo sproporzionato rispetto alle dichiarate esigenze del lavoratore - almeno per dieci minuti e quindi non si può considerare ‘‘momentanea’’ e a ciò va aggiunto che è biasimevole anche la condotta inerte tenuta dal M. nel corso della rapina che costituisce oggetto della seconda contestazione formulatagli dall’azienda f ne deriva che l’intimato licenziamento in tronco per giusta causa appare pienamente legittimo. 2. Il ricorso di G.M. domanda la cassazione della sentenza per cinque motivi resiste, con controricorso, Istituto di Vigilanza Privata IPERVIGILE s.r.l., in persona del legale rappresentante pro tempore. Motivi della decisione I. Sintesi dei motivi di ricorso 1. Con il primo motivo si denuncia omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio. Si sostiene che la Corte territoriale, attraverso una erronea ricostruzione dei fatti, ha configurato il comportamento del ricorrente, consistente in un momentaneo ‘‘allontanamento’’ dal posto di lavoro giustificato da esigenze fisiologiche, come ‘‘abbandono’’ ingiustificato del posto di lavoro, come tale costituente giusta causa del licenziamento in tronco. Inoltre, secondo il ricorrente, nella sentenza impugnata l’elemento della mancata riattivazione del metal detector non sarebbe valutato sempre nel medesimo modo, visto che prima sarebbe stato considerato decisivo e dato per scontato ai fini della qualificazione della condotta in termini di abbandono del posto di lavoro, mentre nell’ambito dell’esame di altri aspetti della condotta del lavoratore ‘‘la funzionalità del metal detector’’ sarebbe stata contraddittoriamente messa in discussione. Peraltro, la attivazione e/o disattivazione del metal detector e l’apertura e/o chiusura delle porte rientravano nella gestione e nella sfera di influenza del personale della banca e non del M., il cui compito era quello del piantonamento esterno. Tale elemento, desumibile dal regolamento di servizio che illustra i compiti delle guardie giurate, non è stato valutato dalla Corte salernitana. Lo stesso regolamento prevede l’intervento con le armi soltanto in caso di attacco al servizio trasporto valori, mentre per la vigilanza fissa antirapina prevede solo un intervento ‘‘con le modalità che le circostanza richiedono’’. 2. Con il secondo motivo si denuncia violazione degli art. 2106 cod. civ., degli artt. 1 e 3 della legge n. 604 del 1966 e dell’art. 7 della legge n. 300 del 1970. Si sostiene che la Corte territoriale abbia violato il principio della immutabilità dei motivi di licenziamento perché avrebbe omesso di valutare la condotta posto a base del recesso datoriale abbandono del posto di lavoro e avrebbe affermato la legittimità del licenziamento facendo riferimento a condotte diverse omesso ripristino del metal detector e omesso avviso al personale della banca perché provvedesse alla chiusura delle porte. 3. Con il terzo motivo si denuncia violazione o falsa applicazione dell’art. 2104 cod civ. Il suddetto articolo parametra la diligenza del lavoratore alla ‘‘prestazione dovuta’’, ma la Corte salernitana non ha individuato, in modo corretto, tale prestazione in quanto, come si è detto, ha valorizzato comportamenti accessori, che esulano dai compiti della guardia giurata. 4. Con il quarto motivo si denuncia violazione e falsa applicazione dell’art. 2697 cod. civ. e dell’art. 5 della legge n. 604 del 1966. Si sostiene che la prova dell’omessa verifica del ripristino del metal detector nonché dell’avviso al personale della banca per la chiusura delle porte avrebbe dovuto essere fornita dalla società datrice di lavoro. Poiché ciò non è accaduto il licenziamento avrebbe dovuto essere considerato illegittimo. 5. Con il quinto motivo si denuncia violazione e falsa applicazione dell’art. 2119 cod. civ. e dell’art. 3 della legge n. 604 del 1966. Si contesta l’affermazione della sussistenza della giusta causa che si assume essere basata sull’erronea ricostruzione della fattispecie, già censurata con il primo motivo come vizio di motivazione. II. Esame delle censure 6. I cinque motivi - da esaminare congiuntamente dato la loro intima connessione - non sono fondati. Nonostante il formale richiamo alla violazione di norme di legge, contenuto nell’intestazione della maggior parte dei motivi, tutte le censure si risolvono nella denuncia di vizi di motivazione della sentenza impugnata per errata valutazione del materiale probatorio acquisito, ai fini della ricostruzione dei fatti. Al riguardo va ricordato che la deduzione con il ricorso per cassazione di un vizio di motivazione della sentenza impugnata non conferisce al Giudice di legittimità il potere di riesaminare il merito della vicenda processuale, bensì la sola facoltà di controllo della correttezza giuridica e della coerenza logica delle argomentazioni svolte dal Giudice del merito, non essendo consentito alla Corte di cassazione di procedere ad una autonoma valutazione delle risultanze probatorie, sicché le censure concernenti il vizio di motivazione non possono risolversi nel sollecitare una lettura delle risultanze processuali diversa da quella accolta dal Giudice del merito vedi, tra le tante Cass. 18 ottobre 2011, n, 21486 Cass. 20 aprile 2011, n. 9043 Cass. 13 gennaio 2011, n. 313 Cass. 3 gennaio 2011, n. 37 Cass. 3 ottobre 2007, n. 20731 Cass. 21 agosto 2006, n. 18214 Cass. 16 febbraio 2006, n. 3436, Cass. 27 aprile 2005, n. 8718 . Infatti, la prospettazione da parte del ricorrente di un coordinamento dei dati acquisiti al processo asseritamente migliore o più appagante rispetto a quello adottato nella sentenza impugnata, riguarda aspetti del giudizio interni all’ambito di discrezionalità di valutazione degli elementi di prova e dell’apprezzamento dei fatti che è proprio del giudice del merito, in base al principio del libero convincimento del giudice, sicché la violazione degli artt. 115 e 116 cod. proc. civ. è apprezzabile, in sede di ricorso per cassazione, nei limiti del vizio di motivazione di cui all’art. 360, primo comma, numero 5, cod. proc. civ., e deve emergere direttamente dalla lettura della sentenza, non già dal riesame degli atti di causa, inammissibile in sede di legittimità Cass. 26 marzo 2010, n. 7394 Cass. 6 marzo 2008, n. 6064 Cass. 20 giugno 2006, n. 14267 Cass. 12 febbraio 2004, n. 2707 Cass. 13 luglio 2004, n. 12912 Cass. 20 dicembre 2007, n. 26965, Cass. 18 settembre 2009, n. 20112 . Nella specie le valutazioni delle risultanze probatorie operate dal Giudice di appello sono congruamente motivate e l’iter logico-argomentativo che sorregge la decisione è chiaramente individuabile, non presentando alcun profilo di manifesta illogicità o insanabile contraddizione. In particolare, non si riscontra alcuna contraddizione nella effettuata valutazione del complessivo comportamento contestato al M. come idoneo a rappresentare una giusta causa del licenziamento in tronco irrogatogli. Infatti, a tale conclusione che, peraltro, si risolve in un apprezzamento di fatto riservato al Giudice di merito ed incensurabile in sede di legittimità, se congruamente motivato, come accade nella specie - la Corte d’appello è pervenuta attraverso un’attenta valutazione da un lato della gravità dei fatti addebitati al lavoratore, in relazione alla portata oggettiva e soggettiva dei medesimi, alle circostanze nelle quali sono stati commessi ed all’intensità dell’elemento intenzionale, dall’altro della proporzionalità fra tali fatti e la sanzione inflitta. La Corte territoriale ha altresì congruamente considerato l’assenza di idonee giustificazioni fornite dall’interessato sia per l’abbandono del posto di lavoro - che non solo è avvenuto senza avvertire i dipendenti della banca, ma si è anche prolungato oltre il tempo necessario allo svolgimento delle operazioni dichiarate - sia per la condotta passiva tenuta durante la rapina, a fronte del fatto che nel Regolamento di servizio è stabilito che le guardie giurate devono svolgere il loro ordinario servizio avendo in dotazione un’arma e, nel rapporto di lavoro che si instaura tra un istituto di vigilanza e le dipendenti guardie giurate, l’autorizzazione al porto d’armi e l’approvazione del Questore, sono necessarie per lo svolgimento dell’attività di guardia giurata, tanto che costituiscono il presupposto indispensabile contrattualmente previsto per la ricevibilità delle prestazioni d’opera Cass. 25 luglio 2006, n. 16924 . Ciò comporta che, all’occorrenza, le guardie giurate devono saper fare uso dell’arma in dotazione, tanto che vengono appositamente addestrate allo scopo. Del resto è lo stesso ricorrente a riferire che per la vigilanza fissa antirapina - svolta dal M. - il suddetto Regolamento prevede che la guardia giurata intervenga ‘‘con le modalità che le circostanze richiedono’’, il che da un lato comporta che, come è inevitabile, la guardia giurata debba scegliere, caso per caso, quale sia la condotta migliore da adottare e, al contempo, esclude che venga adottato un comportamento totalmente inerte, come quello assunto dal ricorrente nel corso della rapina di cui si tratta. Né va omesso di considerare che il risultato cui è pervenuta la Corte territoriale è conforme agli orientamenti costanti e condivisi di questa Corte secondo cui a l’abbandono del posto di lavoro da parte di dipendente cui siano affidate mansioni di custodia e sorveglianza configura - a differenza del momentaneo allontanamento dal posto predetto - una mancanza di rilevante gravità idonea, indipendentemente dall’effettiva produzione di un danno, a fare irrimediabilmente venir meno l’elemento fiduciario nel rapporto di lavoro ed a integrare la nozione di giusta causa di licenziamento, anche in difetto di corrispondente previsione del codice disciplinare, atteso che, nelle ipotesi di licenziamento per giusta causa o giustificato motivo, il potere di recesso del datore di lavoro deriva direttamente dagli artt. 1 e 3 legge n. 604 del 1966, norme esprimenti precetti di sufficiente determinatezza Cass. 6 luglio 2002, n. 9840 b per stabilire in concreto l’esistenza di una giusta causa di licenziamento, che deve rivestire il carattere di grave negazione degli elementi essenziali del rapporto di lavoro ed in particolare di quello fiduciario, occorre valutare da un lato la gravità dei fatti addebitati al lavoratore, in relazione alla portata oggettiva e soggettiva dei medesimi, alle circostanze nelle quali sono stati commessi ed all’intensità dell’elemento intenzionale, dall’altro la proporzionalità fra tali fatti e la sanzione inflitta, stabilendo se la lesione dell’elemento fiduciario su cui si basa la collaborazione del prestatore di lavoro sia in concreto tale da giustificare o meno la massima sanzione disciplinare la valutazione della gravità dell’infrazione e della sua idoneità ad integrare giusta causa di licenziamento si risolve in un apprezzamento di fatto riservato al giudice di merito ed incensurabile in sede di legittimità, se congruamente motivato Cass. 4 giugno 2002, n. 8107 Cass. 18 novembre 2010, n. 23309 c conseguentemente sono state confermate le sentenza di merito di rigetto di impugnative di licenziamento di guardie giurate, dipendente di istituti di vigilanza privata, allontanatesi dal posto di lavoro senza fornire nell’immediatezza dei fatti alcuna giustificazione e senza informare i superiori Cass. 4 giugno 2002, a 8107 Cass. 24 luglio 1998, n. 7296 d per i dipendenti degli istituti di vigilanza privata la fattispecie dello ‘‘abbandono del posto di lavoro’’ è sanzionarle con il licenziamento in base ad una clausola del CCNL di categoria e sussiste, attese la natura e le peculiari caratteristiche del servizio di vigilanza, sempreché sia stata accertata, in concreto l’idoneità dell’inadempimento del lavoratore ad incidere sulle esigenze di prevenzione, repressione e, più in generale, di controllo proprie del servizio stesso Cass. 24 luglio 1998, n. 7296 Cass. 26 settembre 2011, n. 19622 . A fronte di questa situazione, le doglianze mosse dal ricorrente si risolvono sostanzialmente nella prospettazione di un diverso apprezzamento delle stesse prove e delle stesse circostanze di fatto già valutate dal Giudice di merito in senso contrario alle aspettative della medesima ricorrente e si traducono nella richiesta di una nuova valutazione del materiale probatorio, del tutto inammissibile in sede di legittimità. IlI. Conclusioni 7. Per le suesposte ragioni il ricorso va respinto. Le spese del giudizio, liquidate come da dispositive, seguono la soccombenza. P.Q.M. La Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese del giudizio che liquida in euro 50,00 cinquanta per esborsi ed euro 4.000,00 per onorari, oltre accessori di legge.