Documenti rifiutati, offesa all’amministratore unico: illegittimo il licenziamento

Azzerato definitivamente il provvedimento adottato dall’azienda, che aveva contestato il comportamento tenuto dal lavoratore-sindacalista, il quale aveva prima scelto di non ricevere la documentazione relativa alla mobilità e poi apostrofato malamente il rappresentante dell’azienda. Modi poco ortodossi, ma legittimo esercizio delle prerogative sindacali.

Sbruffone! . Epiteto sicuramente poco simpatico, reso ancora più ‘pesante’ se a pronunciarlo è un lavoratore-sindacalista nei confronti dell’amministratore unico della società di cui è dipendente. Ma l’unica reazione possibile, da parte dell’azienda, è una censura sul piano disciplinare. Ricorrere addirittura al licenziamento è illegittimo Cassazione, sentenza numero 15165, sezione lavoro, depositata oggi . Tranchant. Eppure proprio l’espulsione era stata decisa dalla società, fondando la decisione di troncare di netto il rapporto non solo sulle frasi negative pronunciate nei confronti dell’amministratore unico ma anche sulla scelta del lavoratore di non ricevere la documentazione concernente la procedura di mobilità , scelta catalogabile, secondo l’azienda, come insubordinazione . Valutazioni erronee, però, quelle aziendali, sia per il Tribunale che per la Corte d’Appello, che avevano condiviso la declaratoria di illegittimità del licenziamento , riducendo l’impatto delle azioni addebitate al lavoratore, anche considerando il suo ruolo di sindacalista. Rapporto salvo. A proporre un ribaltamento di prospettiva è nuovamente l’azienda, col ricorso ad hoc presentato in Cassazione e centrato sulla gravità dell’operato del lavoratore, ossia rifiuto di ricevere la documentazione inerente la procedura di mobilità, che lo riguardava e espressioni offensive nei confronti del rappresentante della parte datoriale , capace di incrinare irrimediabilmente il rapporto fiduciario . Peraltro, secondo questa linea di pensiero, anche il comportamento successivo del dipendente era contraddistinto da un atteggiamento di avversione e conflittualità , essendosi l’uomo rifiutato di riprendere il servizio a seguito di invito della società . Ma anche in terzo grado la visione proposta dall’azienda viene respinta. Piuttosto, viene privilegiata una ‘lettura’ dei fatti favorevole al lavoratore. Per i giudici di Cassazione, difatti, gli elementi contestati non potevano integrare gli estremi di una insubordinazione , perché il comportamento del dipendente non era collegabile ai doveri della prestazione lavorativa ed era stato posto in essere, seppur in maniera aspra, nel contesto dell’esercizio di prerogative sindacali , e, allo stesso tempo, non era ipotizzabile un danno d’immagine all’azienda. Complessivamente quindi, la sanzione inflitta , ossia il licenziamento, è da considerarsi sproporzionata di conseguenza, viene confermata l’illegittimità della scelta operata dall’azienda, il cui ricorso è rigettato in toto .

Corte di Cassazione, sez. Lavoro, sentenza 26 aprile – 11 settembre 2012, n. 15165 Presidente Lamorgese – Relatore Berrino Svolgimento del processo Con sentenza del 2/4 – 30/11/09 la Corte d’appello di Roma - sezione lavoro ha respinto sia l’appello principale che incidentale proposti, rispettivamente, dalla Security Corps s.r.l. e da C.A., avverso la sentenza del giudice del lavoro del Tribunale di Roma che aveva dichiarato l’illegittimità dei licenziamento intimato a quest’ultimo il 18/3/06, disponendone la reintegra e condannando la resistente al pagamento delle retribuzioni fino al ripristino del rapporto. Con tale decisione la Corte condividendo il responso del primo giudice, ha escluso che potesse configurarsi una ipotesi di insubordinazione nel rifiuto del C. di ricevere la documentazione concernente la procedura di mobilità, non potendo tale comportamento farsi rientrare nell’alveo delle obbligazioni nascenti dal rapporto di lavoro inoltre, ha ritenuto che le frasi di apprezzamento negativo dell’iniziativa datoriale espresse dal medesimo potevano essere ricondotte alle sue prerogative di sindacalista ed apparivano inidonee a screditare sul piano commerciale l’operato dell’impresa, mentre l’espressione sbruffone” rivolta all’amministratore unico T.G., seppur censurabile sul piano disciplinare, appariva inidonea a giustificare l’adozione della misura espulsiva, essendosi trattato di una semplice reazione emotiva scevra da intenti di minaccia. Per la cassazione della sentenza propone ricorso la Union Delta S.r.l., già Security Corps s.r.l., la quale affida l’impugnazione a due motivi di censura. Resiste con controricorso A.C. il quale deposita anche memoria ai sensi dell’art. 3713 c.p.c. Motivi della decisione 1. Col primo motivo la ricorrente deduce la violazione degli artt. 2219 c.c., 1175 c.c. e 1375 c.c. in relazione all’art. 360, primo comma lett. a , cod. proc. civ. sostenendo che i fatti addebitati al C., vale a dire il rifiuto di ricevere la documentazione inerente la procedura di mobilità che lo riguardava ed il tenore delle espressioni offensive adoperate nei confronti del rappresentante della parte datoriale, erano idonei ad incrinare irrimediabilmente il rapporto fiduciario col dipendente la cui espulsione era, pertanto, giustificata. Aggiunge la ricorrente che la qualità di rappresentante sindacale del C. non lo abilitava a rifiutare la ricezione sul luogo del lavoro della predetta documentazione, sia in considerazione del vincolo contrattuale che legava le parti al rispetto dei relativi adempimenti negoziali, sia con riguardo al fatto che quella comunicazione concerneva anche la posizione lavorativa del medesimo dipendente, per cui non era condivisibile la conclusione cui era giunta la Corte di merito, la quale aveva ritenuto che il fatto fosse riconducibile nell’ambito delle relazioni sindacali, come tale scusabile, trascurando la circostanza che il C. non si era nemmeno preoccupato di provare la verità dei fatti costituenti l’oggetto delle accuse rivolte all’operato della società. In ogni caso, conclude la difesa della società, nessun atteggiamento antisindacale era emerso nel comportamento della parte datoriale atto a far ritenere illegittima la sua decisione di licenziare il C. 2. Col secondo motivo la ricorrente si duole dell’omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione circa un punto decisivo della controversia rappresentato dalla condotta del C. in occasione dei fatti di causa, assumendo che il medesimo aveva tenuto un comportamento, non solo immotivato e pretestuoso, quale il rifiuto di ricevere la documentazione che concerneva la sua posizione lavorativa, ma anche offensivo nei riguardi del rappresentante della società, comportamento che incrinava irrimediabilmente il vincolo fiduciario ed integrava gli estremi dell’intimato recesso. Aggiunge la ricorrente che anche il comportamento successivo del dipendente era stato contraddistinto da un atteggiamento di avversione e conflittualità, essendosi il medesimo rifiutato di riprendere il servizio a seguito di invito della società comunicatogli solo due giorni dopo la lettura del dispositivo, intimandole di dare esecuzione alla sentenza e segnalandole che si riservava di far valere ogni suo diritto in merito. Quanto alla censura espressa col secondo motivo, attraverso la quale si contesta, attraverso un inammissibile tentativo di rivisitazione del merito, la motivazione della sentenza in ordine alla valutazione della condotta del C. ai fini del suo licenziamento, si osserva che la stessa non scalfisce la validità della ratio decidendi” adottata al riguardo dai giudici d’appello, i quali, con ragionamento adeguato ed immune da vizi di carattere logico-giuridico, come tale sottratto ai rilievi di legittimità, hanno escluso che i fatti contestati al dipendente potessero integrare gli estremi di una insubordinazione, atteso che il comportamento di quest’ultimo non era collegabile ai doveri della prestazione lavorativa ed era stato posto in essere, seppur in maniera aspra nel contesto dell’esercizio di prerogative sindacali. In maniera altrettanto adeguata la Corte di merito ha posto l’accento sul fatto che il comportamento contestato al C. non aveva determinato un danno d’immagine, come supposto dalla parte datoriale, ed ha escluso che la sanzione inflitta potesse considerarsi proporzionata all’addebito, così come emerso dall’istruttoria, per cui non è dato ravvisare il lamentato vizio motivazionale. In definitiva, il ricorso va rigettato. Le spese del presente giudizio seguono la soccombenza, della ricorrente e vanno poste a suo carico nella misura liquidata come da dispositivo con attribuzione all’avv. F.A., dichiaratosi antistatario. P.Q.M. La Corte rigetta il ricorso. Condanna la ricorrente alle spese del presente giudizio nella misure di € 3000,00 per onorario ed € 40,00 per esborsi, oltre IVA, CPA e spese generali ai sensi di legge, con attribuzione all’avv. A.