Cede una parte del credito di lavoro e agisce in giudizio per ottenere il resto: il residuo si calcola al lordo

Un lavoratore cede a terzi parte del suo credito verso il datore, e agisce per ottenere il residuo la sottrazione va operata sul lordo, tra importi di natura omogenea.

Il credito di lavoro è cedibile e, nel trasferimento, mantiene tutti i caratteri che gli sono propri. Nel caso in cui il lavoratore ceda soltanto una parte e agisca nei confronti del debitore per ottenere la parte non ceduta, quest’ultima deve essere calcolata al lordo delle ritenute la sottrazione, infatti, va operata tra importi di natura omogenea. Lo ha affermato la sezione Lavoro della Corte di Cassazione, con la sentenza n. 13 depositata lo scorso 5 gennaio. La fattispecie. Il dipendente di una società pubblicitaria intimava al datore di lavoro, con atto di precetto, il pagamento di quanto dovuto sulla base di una sentenza del Tribunale che accertava, tra le altre cose, l’illegittimità del licenziamento intimato. La società datrice si opponeva, eccependo il difetto di legittimazione del lavoratore che aveva ceduto parte del suo credito a terzi. Secondo il giudice adito, però, il dipendente aveva diritto a procedere all’esecuzione forzata relativamente all’importo non ceduto. La società proponeva ricorso per cassazione. Anche il credito di lavoro è cedibile. Le questioni rilevanti, nella vicenda in esame, sono sostanzialmente due, strettamente connesse tra loro la prima riguarda la cedibilità di un credito di lavoro la seconda attiene alla possibilità, per il cedente, di procedere all’esecuzione forzata del residuo non ceduto e alle modalità in cui deve essere calcolato tale residuo del credito. Nel trasferimento il credito mantiene gli stessi caratteri. In applicazione dei principi generali, la cessione del credito, di norma, è libera. Pertanto, anche i crediti di lavoro possono essere ceduti. E, attenendosi al dato normativo, la S.C. precisa che il credito viene trasferito al cessionario con gli stessi caratteri, garanzie ed eccezioni che aveva al momento del trasferimento non muta la sua natura di credito di lavoro. Insomma, nella cessione rientra ogni situazione giuridica che risulti direttamente collegata con il credito e che, quindi, ne integri i contenuto economico e ne specifichi il contenuto. Cessione di una parte del credito come calcolare il credito residuo azionabile? Dalle considerazioni che precedono, e in ragione del fatto che l’accertamento e la liquidazione in giudizio dei crediti del lavoratore vanno effettuati sempre al lordo delle trattenute fiscali e contributive, il Collegio ha tratto la conclusione che anche l’importo oggetto di cessione deve essere considerato come lordo, così confermando l’operato dei giudici di merito. L’importo ceduto è al lordo la sottrazione si opera tra importi di natura omogenea. La sentenza impugnata, infatti, nel calcolare il credito residuo azionabile dal lavoratore nei confronti della società datrice, ha correttamente considerato come lordo l’importo oggetto di cessione e, come tale, lo ha sottratto alla somma liquidata in sentenza. Ciò appare corretto, in quanto la sottrazione viene operata tra importi di natura omogenea peraltro le ritenute vengono effettuate solo al momento dell’effettivo pagamento. Il ricorso del datore di lavoro, quindi, viene rigettato.

Corte di Cassazione, sez. Lavoro, sentenza 12 ottobre 2011 – 5 gennaio 2012, n. 13 Presidente De Renzis – Relatore Di Cerbo Svolgimento del processo Con ricorso al giudice del lavoro di Roma la s.r.l. PIM - Pubblicità Italiana Multimedia - proponeva opposizione all'atto di precetto col quale era stato intimato alla suddetta società di pagare ad S.A.G. la somma di Euro 812.535,80 per vari titoli derivanti dalla sentenza del Tribunale di Milano in data 18 settembre 2007 con la quale era stata dichiarata, fra l'altro, l'illegittimità del licenziamento intimato al S. dalla società sopra indicata, sua datrice di lavoro. Eccepiva, in particolare, la società ricorrente il difetto di legittimazione del S. a procedere all'esecuzione atteso che quest'ultimo, come aveva ritualmente comunicato all'opponente, aveva ceduto ad altri il credito di cui al procedimento de quo fino alla concorrenza di Euro 354.300,00. Sotto altro profilo deduceva l'erroneità della quantificazione delle somme dovute a titolo di interessi legali e rivalutazione monetaria e chiedeva che, previa sospensione dell'efficacia del titolo esecutivo, il precetto fosse dichiarato nullo ed inefficace. Costituitosi il contraddittorio, il giudice adito ordinava la sospensione dell'efficacia esecutiva del titolo fatto valere in giudizio. Con sentenza in data 15 maggio 2009 dichiarava che il S. aveva diritto a procedere all'esecuzione forzata, nei confronti dell'opponente per la somma di Euro 408.072,20. Per la cassazione della sentenza propone ricorso la s.r.l. PIM - Pubblicità Italiana Multimedia affidato a due motivi illustrati da memoria. Il S. resiste con controricorso. Motivi della decisione Il presente ricorso per cassazione è ammissibile atteso che, trattandosi di sentenza depositata in data 15 marzo 2009, alla fattispecie si applica la disposizione di cui all'art. 616 cod. proc. civ. come modificato dall'art. 14 della legge 24 febbraio 2006 n. 52. Tale norma è stata poi nuovamente modificata dall’art. 49 della legge 18 giugno 2009 n. 69, ma tale modifica, entrata in vigore a decorrere dal 4 luglio 2009, che ha reintrodotto l'appellabilità delle pronunce di primo grado, non si applica, ratione temporis , al caso di specie Cass. ordin. 30 aprile 2011 n. 9591 Cass. 21 gennaio 2011 n. 1402 . Col primo motivo di ricorso parte ricorrente denunzia violazione e falsa applicazione degli artt. 9 e 23 della legge n. 218 del 1952 in relazione all'art. 1263 cod. civ. nonché degli artt. 23 e 64 del D.P.R. n. 600 del 1973, sempre in relazione all'art. 1263 cod. civ. Deduce che la sentenza impugnata, pur avendo parzialmente accolto l'opposizione proposta dalla PIM in relazione agli effetti prodotti dalla cessione del credito, da parte del S., fino alla concorrenza di Euro 354.300,00 è viziata nella parte in cui ha affermato che il residuo credito azionabile ammonta alla somma complessiva di Euro 408.072,20 tale somma è stata infatti ottenuta detraendo dall'importo lordo dovuto in virtù della sentenza del Tribunale di Milano, comprensivo di interessi legali e rivalutazione monetaria al 7 gennaio 2009, l'importo oggetto di cessione pure maggiorato di interessi legali e rivalutazione monetaria al 7 gennaio 2009 anch'esso erroneamente considerato importo lordo laddove trattavasi di importo necessariamente netto e cioè al netto delle ritenute e contributive . Ciò in quanto a esiste un obbligo legale inderogabile per il datore di lavoro - sostituto di imposta - di effettuare le ritenute fiscali sulle somme erogate al dirigente e tale obbligo deve essere necessariamente assolto nel rapporto azienda lavoratore senza alcuna rilevanza delle posizioni dei terzi b il dirigente aveva nella sua disponibilità solo somme nette e solo queste poteva aver legittimamente ceduto. Il motivo è infondato. Deve infatti ritenersi corretta, in quanto conforme al disposto di cui all'art. 1263 cod. civ., l'affermazione del giudice del merito secondo cui il credito oggetto della cessione viene trasferito al cessionario con gli stessi caratteri, garanzie ed eccezioni che aveva al momento del trasferimento e quindi non muta la sua natura di credito di lavoro, al quale devono ritenersi applicabili tutti gli istituti legali e contrattuali e i criteri di accertamento e quantificazione valevoli per i crediti aventi la medesima natura. Ed infatti, secondo quanto precisato da questa Corte di legittimità Cass. 15 settembre 1999 n. 9823 , in tema di cessione del credito, la previsione del primo comma dell'art. 1263 cod. civ., in base alla quale il credito è trasferito al cessionario, oltre che con i privilegi e le garanzie reali e personali, anche con gli altri accessori , deve essere intesa nel senso che nell'oggetto della cessione rientri ogni situazione giuridica direttamente collegata con il diritto ceduto, la quale, in quanto priva di profili di autonomia, integri il suo contenuto economico o ne specifichi la funzione, ivi compresi tutti i poteri del creditore relativi alla determinazione, variazione e modalità della prestazione. Nello stesso senso cfr., altresì, Cass. 17 gennaio 2001 n. 575 secondo la quale, a seguito della cessione del credito, il debitore ceduto diviene obbligato verso il cessionario allo stesso modo in cui era tale nei confronti del suo creditore originario. Orbene, secondo la costante giurisprudenza di legittimità cfr., ad esempio, Cass. 1 luglio 2000 n. 8842 l'accertamento e la liquidazione in giudizio dei crediti pecuniari del lavoratore vanno effettuati al lordo delle ritenute fiscali e contributive, in quanto le prime attengono al distinto rapporto di imposta e vanno eseguite in un momento successivo ed anche le seconde non possono essere considerate nell'ambito del giudizio di cognizione, poiché il datore di lavoro può provvedervi in relazione alla sola retribuzione corrisposta alla scadenza. In senso conforme cfr. Cass. 26 luglio 1996 n. 6758. La sentenza impugnata, nel calcolare il residuo credito azionabile dal S. dopo la cessione di una parte di esso a favore di un soggetto terzo ha correttamente considerato, in applicazione dei suddetti principi, l'importo oggetto della cessione come lordo e come tale lo ha sottratto all'importo lordo dovuto in virtù della sentenza del Tribunale di Milano in data 18 settembre 2007 data di lettura del dispositivo . Tale criterio, che è corretto anche dal punto di vista logico in quanto opera la sottrazione fra importi di natura omogenea, non determina alcuna violazione delle norme invocate da parte ricorrente, in quanto esso attiene soltanto al criterio di determinazione delle somme dovute al lavoratore all'esito dell'avvenuta cessione parziale del credito, laddove le ritenute fiscali e previdenziali vengono effettuate solo al momento dell'effettivo pagamento delle stesse. Quanto all'ulteriore argomento basato sull'interpretazione, da parte del Tribunale, dell'atto di cessione del credito, esso è inammissibile per vizio di autosufficienza non avendo parte ricorrente riprodotto nel motivo di ricorso il testo dell'atto stesso cfr., ad esempio, Cass. 22 febbraio 2007 n. 4178 Cass. 6 febbraio 2007 n. 2560 . Col secondo motivo di ricorso la società denuncia violazione e falsa applicazione del'art. 474 cod. proc. civ. Deduce che la sentenza impugnata ha omesso di tener conto del fatto che il precetto azionato contiene somme al lordo delle ritenute previdenziali, laddove il titolo esecutivo deve essere azionato al netto di tali ritenute. Il motivo si conclude col seguente quesito di diritto se costituisca violazione e/o falsa applicazione dell'art. 474 c.p.c. l'aver azionato un titolo esecutivo contenente somme al lordo delle ritenute previdenziali e fiscali quando grava sul lavoratore l'obbligo di dedurre tali ritenute dagli importi che questi ponga in esecuzione senza attendere che il datore di lavoro vi ottemperi. Il motivo è inammissibile. Premesso che la sentenza impugnata è soggetta, ratione temporis , alla disciplina dell'art. 366 bis cod. proc. civ., introdotto dal D.Lgs. n. 40 del 2006, l'illustrazione delle censure, concernenti la violazione e falsa applicazione di norme di diritto si conclude con la formulazione di un quesito di diritto che non è rispettoso della prescrizione dettata dal citato art. 366 bis. Al riguardo è stato anche recentemente precisato cfr. Cass. 14 gennaio 2011 n. 774 Cass., S.U. 25 novembre 2008 n. 28054 Cass. S.U., 9 luglio 2008 n. 18759 che il quesito di diritto, previsto dall'art. 366 bis cod. proc. civ. risulta ritualmente formulato quando, pur non essendo esposto in forma interrogativa, consenta di far comprendere dalla sua sola lettura quale sia l'errore di diritto assentamene compiuto dal giudice di merito e quale, secondo la prospettazione del ricorrente, la regola da applicare. Nel caso di specie, la parte ricorrente non ha adempiuto alla prescrizione imposta dal citato art. 366 bis ed infatti il quesito, formulato nei termini sopra riportati, non appare riconducibile nello schema previsto dalla legge atteso che la sua formulazione non indica in modo chiaro l'errore di diritto imputato alla sentenza impugnata in relazione alla concreta controversia. Il ricorso deve essere in definitiva rigettato. In applicazione del criterio della soccombenza la società ricorrente deve essere condannata al pagamento delle spese processuali liquidate come in dispositivo. P.Q.M. La Corte rigetta il ricorso condanna parte ricorrente al pagamento delle spese processuali liquidate in Euro 100,00 oltre Euro 6000 seimila per onorari e oltre spese generali, IVA e CPA.