Dipendente di azienda telefonica attiva tariffe promozionali a parenti e amici: sproporzionato il licenziamento

Illegittimo il licenziamento senza la prova che il lavoratore fosse a conoscenza che quel comportamento era vietato.

Per affermarsi la proporzionalità tra condotta e licenziamento disciplinare deve essere provato che il lavoratore era consapevole che nell’ambito del rapporto di lavoro quel determinato comportamento era da considerare vietato. Senza tale prova, e senza un’espressa previsione del divieto nel contratto collettivo, il licenziamento è illegittimo. Lo ha affermato la Corte di Cassazione con l’ordinanza n. 29628 depositata il 29 dicembre. La vicenda. Un dipendente di un’azienda telefonica veniva licenziato senza preavviso per violazione del divieto di attivazione di tariffe promozionali a parenti e amici. Impugnava il licenziamento, chiedendo la reintegra nel posto di lavoro e il risarcimento. La domanda veniva accolta dal Tribunale e confermata dalla Corte d’appello, la quale giudicava sproporzionata la sanzione espulsiva, inflitta al lavoratore, in relazione al comportamento contestato. Il datore proponeva, quindi, ricorso per cassazione. Va sempre valutata la congruità della sanzione. E’ compito riservato al giudice del merito quello di valutare la congruità della sanzione espulsiva, tenuto conto di ogni aspetto della vicenda che, nel caso concreto, evidenzi la gravità della condotta e la difficoltà di una prosecuzione del rapporto. Indici di tali elementi sono sia la previsione della sanzione all’interno del contratto collettivo che l’intensità dell’elemento intenzionale. Sproporzionato il licenziamento se il lavoratore non sapeva che la condotta era vietata Con riferimento a quest’ultimo aspetto, deve essere provato che il lavoratore fosse a conoscenza che il comportamento contestatogli era vietato. Senza tale prova, non può essere affermata la proporzionalità tra condotta e licenziamento. e se il contratto collettivo non prevede per quella condotta una simile sanzione. Nel caso concreto, inoltre, va aggiunto che, come correttamente evidenziato dalla Corte territoriale, la condotta contestata non faceva parte di alcun comportamento per cui il contratto collettivo prevede la sanzione del licenziamento senza preavviso. In ogni caso il comportamento tenuto dal lavoratore non era caratterizzato da connotati di tale gravità da far venir meno il rapporto fiduciario tra le parti e rendere impossibile una prosecuzione del rapporto. La S.C., insomma, ritiene condivisibili tutte le considerazioni svolte nella sentenza impugnata in mancanza del necessario requisito della proporzionalità tra condotta e sanzione, il licenziamento appare illegittimo.

Corte di Cassazione, sez. Lavoro, ordinanza 5 -29 dicembre 2011, n. 29628 Presidente Battimiello – Relatore Mammone Ritenuto in fatto e diritto 1.- Con ricorso al giudice del lavoro di Napoli, impugnava il licenziamento disciplinare intimatogli da per violazione del divieto di attivazione di tariffe telefoniche promozionali su schede di utenze personali o riconducibili a parenti ed amici, chiedendo la reintegrazione nel posto di lavoro e il risarcimento del danno. 2.- Accolta la domanda e proposto appello da la Corte di appello di Napoli con sentenza 14.10.09 rigettava l'impugnazione ritenendo sproporzionata la sanzione espulsiva in relazione al comportamento contestato. Secondo il giudice non esisteva una regola aziendale, conosciuta dai dipendenti, che indicasse i tipi di attivazione vietati ed i soggetti destinatari del divieto, tanto che la condotta oggetto di censura era stata solo vagamente delineata con la lettera di contestazione. La condotta contestata non rientrava, del resto, in nessuna delle categorie di comportamenti cui il ccnl dei dipendenti delle aziende esercenti servizi di telecomunicazione art. 48, lett. b ricollegava la sanzione del licenziamento senza preavviso. La Corte riteneva, dunque, che il comportamento del non fosse caratterizzato da connotati tali da far ritenere che la sua realizzazione avesse fatto venir meno il rapporto fiduciario tra le parti. 3.- Proponeva ricorso per cassazione deducendo a carenza di motivazione in quanto la genericità della contestazione è derivata da una parziale lettura della lettera di contestazione motivi primo e secondo b violazione dell’art. 7 s.d.L e dell'art 112 c.p.c., in quanto il lavoratore, secondo quanto risultante dalla risposta scritta alla contestazione, aveva ben compreso il contenuto dell’addebito, al punto da non eccepirne in giudizio la genericità il vizio rilevato dal giudice sarebbe dunque frutto di ultrapetizione motivi terzo e quarto c violazione dell’art. 2119 cc. in quanto il giudizio sulla proporzionalità sarebbe stato effettuato in astratto, senza riscontro probatorio, dato che senza motivazione le prove testimoniali dedotte non esano state ammesse motivi quinto e sesto d violazione dell’art. 2119 c.c. in quanto il giudice aveva ritenuto non apprezzabile il danno patrimoniale derivato al datore dalla condotta del dipendente e, comunque, non avrebbe considerato che la condotta stessa, a prescindere dal suo non inserimento tra i comportamenti sanzionabili con il licenziamento comunque era fonte di violazione di un principio etico comunemente avvertito dalla collettività. Si difendeva con controricorso 4.- Il consigliere relatore ai sensi degli artt. 375 e 380 bis c.p.c. ha depositato relazione, che è stata comunicata al Procuratore generale e notificata ai difensori assieme all'avviso di convocazione dell'adunanza. La ricorrente ha depositato memoria. 5.- I motivi da uno a sei sub 3.a, 3.b e 3.c sono privi del requisito dell'autosufficienza, in quanto non indicano quale fosse il contenuto della lettera di contestazione che si assume male interpretata, né precisano quale fosse il tenore delle difese del lavoratore da cui dovrebbe arguirsi l'evidente significato della contestazione. Analogamente il contenuto dei capitolati di prova non è neppure sommariamente riassunto. Consegue l'assoluta impossibilità per il Collegio di effettuare un qualsiasi riscontro fattuale circa il contenuto della tesi difensiva sostenuta dalla ricorrente. 6.- Quanto ai motivi settimo ed ottavo sub 4.d si contrasta l'argomentata motivazione del giudice di merito in punto di genericità dell'addebito e di sproporzione della sanzione espulsiva con considerazioni di merito valutativo a proposito del contrasto della condotta con il comune senso etico che sollecitano alla Corte un inammissibile giudizio di fatto, senza colpire il punto fondamentale della motivazione, e cioè che per affermarsi la proporzionalità tra condotta e sanzione espulsiva, avrebbe dovuto provarsi che il lavoratore fosse consapevole che nell'ambito del rapporto di lavoro quel certo comportamento era da considerare vietato. 7.- Il giudice di merito, infatti, deve valutare la congruità della sanzione espulsiva tenendo conto di ogni aspetto concreto della vicenda che, alla luce di un apprezzamento unitario e sistematico, risulti sintomatico della gravità rispetto ad un'utile prosecuzione del rapporto di lavoro, assegnandosi a tal fine preminente rilievo sia alla configurazione che delle mancanze addebitate faccia la contrattazione collettiva, che all'intensità dell'elemento intenzionale, al grado di affidamento richiesto dalle mansioni svolte dal dipendente, alle precedenti modalità di attuazione del rapporto ed alla sua durata ed all'assenza di precedenti sanzioni , alla sua particolare natura e tipologia, giurisprudenza costante, v. da ultimo Cass. 22.6.09 n. 14586 . Il giudice di merito si è attenuto a tali principi, procedendo alla valutazione del comportamento tenuto dal lavoratore, così giungendo alla conclusione della mancanza di proporzionalità, non sottraendosi — ai fini di un esauriente esposizione degli elementi di convincimento - all'analisi dell'art. 48 del contratto collettivo, traendo proprio dalla valutazione del suo contenuto significativi elementi logici a favore del giudizio di non proporzionalità. 8.- Il ricorso è dunque, infondato e deve essere rigettato. Le spese di giudizio, come liquidate in dispositivo, seguono la soccombenza. P.Q.M. Rigetta il ricorso e condanna la ricorrente alle spese del giudizio di legittimità, che liquida in € 30 trenta per esborsi ed in € 2.000 duemila per onorari, oltre spese generali, Iva e Cpa.