Il demansionamento è sempre risarcibile

di Antimo Di Geronimo

di Antimo Di Geronimo Il demansionamento non fa abbassare lo stipendio anche se avviene in accoglimento di una domanda di trasferimento del lavoratore. Ciò perché l'art. 2103 c.c., che vieta l'assegnazione a mansioni inferiori, è norma imperativa e, dunque, non può essere derogata. Conseguentemente, l'assegnazione a mansioni inferiori determina, sempre e comunque, l'obbligo per il datore di lavoro di risarcire il danno patrimoniale al lavoratore. Tale danno va determinato nell'ordine delle differenze retributive tra quanto avrebbe avuto titolo a percepire e quanto effettivamente percepito a causa del demansionamento. In più, se a seguito di tale inadempimento il lavoratore va incontro alla impossibilità di svolgere correttamente le mansioni, in quanto non previamente formato, oltre al risarcimento del danno patrimoniale, ha diritto anche al risarcimento del danno non patrimoniale per la lesione alla propria dignità personale e professionale, che il giudice può liquidare in via equitativa. È quanto si evince dalla sentenza n. 8527, depositata il 14 aprile 2011, con cui la sezione Lavoro della Corte di Cassazione ha rigettato il ricorso di un imprenditore. Il fatto. Un lavoratore aveva chiesto all'imprenditore di essere trasferito ad altra sede. L'imprenditore aveva accolto la domanda disponendo il trasferimento, ma nella nuova sede lo aveva adibito a mansioni inferiori determinando così anche una perdita salariale. A ciò si aggiungeva anche un pregiudizio per la dignità personale e professionale del lavoratore, perché era stato adibito a mansioni per le quali non possedeva le abilità e le competenze necessarie. Dunque senza la previa, necessaria istruzione e quindi con disagio dovuto all'evidente ed incolpevole imperizia . La fase di merito. Di qui l'esperimento dell'azione giudiziale, che si risolveva in senso favorevole al lavoratore con conseguente condanna del datore di lavoro al pagamento di 36.500 euro, con rivalutazione e interessi, per il riconoscimento del danno patrimoniale crediti retribuitivi e del danno non patrimoniale lesione della dignità personale e professionale del lavoratore . La sentenza di I grado veniva appellata, ma il ricorso veniva rigettato e, dunque, il datore di lavoro si risolveva a presentare ricorso per cassazione. Il ricorso si fondava su tre motivi. La non equivalenza di fatto delle mansioni crea demansionamento. Con il primo motivo il ricorrente aveva lamentato che la Corte d'Appello non avesse adeguatamente valutato le differenze di qualifica tra le mansioni precedenti del lavoratore e quelle effettivamente svolte, alla luce dei relativi profili professionali indicati nel contratto c.d. declaratorie contrattuali . Ma la Corte di cassazione ha ritenuto tale motivo infondato, dichiarando l'operato dei giudici di II grado conforme all'iter di controllo di legittimità dell'esercizio dello ius variandi. Iter indicato dalla stessa Corte nella valutazione della omogeneità tra le mansioni precedentemente attribuite e quelle di originaria appartenenza, che devono essere equivalenti in concreto e non in senso meramente formale. Il divieto di demansionamento è inderogabile. Il secondo motivo si fondava sull'asserita derogabilità dell'art. 2013 c.c. che dispone il divieto di demansionamento. Ma la Corte ha chiarito che si tratta di una norma imperativa, dunque, inderogabile. Il disagio da imperizia incolpevole è danno non patrimoniale. Infine, il terzo motivo si basava sulla asserita illegittimità del risarcimento in via equitativa del danno non patrimoniale. Ma anche in questo caso la Corte lo ha dichiarato infondato, spiegando che il disagio patito dal lavoratore adibito a diverse mansioni, in assenza della previa necessaria formazione, determina l'insorgenza del danno non patrimoniale per la lesione arrecata alla dignità personale e professionale del prestatore di lavoro, costretto ad operare in una evidente situazione di disagio dovuta alla incolpevole imperizia.

Corte di Cassazione, sez. Lavoro, sentenza 2 febbraio - 14 aprile 2011, n. 8527 Presidente Roselli - Relatore Stile Svolgimento del processo Con ricorso depositato in data 24/5/05 AEM Service s.p.a. conveniva, dinanzi alla Corte di Appello di Milano, R.D.F. chiedendo la riforma della sent. n. 4109/04 del Tribunale della stessa città, che aveva accolto la domanda di quest'ultimo, volta all'accertamento della dedotta dequalificazione e l'aveva condannata a pagare al lavoratore Euro 36.500,00, con rivalutazione e interessi. L'appellante lamentava che il primo Giudice non avesse considerato che il D.F., impiegato ASS, non aveva più svolto mansioni di contabilità già da giugno 1998 quando era a Cassano che, avendo bisogno di cure, aveva chiesto di essere trasferito da Cassano d'Adda a Milano, dove aveva indicato consapevolmente l'ufficio cui essere assegnato - quello delle fatturazioni-, in assenza di un ufficio di contabilità che egli, assegnato alle nuove mansioni da settembre 1999, si era lamentato per la dequalificazione solo a febbraio 2001 che la teste L. aveva riferito che egli non era sottoposto ad un lavoratore con qualifica inferiore nelle nuove mansioni, ma ad un quadro M. che il lavoratore non aveva dedotto né provato, in modo specifico, il danno alla professionalità che la liquidazione era eccessiva, tenuto conto che il D.F. in realtà non voleva lavorare sul computer, strumento indispensabile. Si costituiva il lavoratore e resisteva all'appello, rilevando che risultava dalle prove la lunga e grave dequalificazione. Con sentenza del 30 novembre 2006-18 gennaio 2007, l'adita Corte d'appello di Milano, ritenuta provata la lamentata dequalificazione nonché il conseguente danno nella misura accertata dal primo Giudice, rigettava il gravame. Per la cassazione di tale pronuncia ricorre l'AEM Service spa con tre articolati motivi. Resiste R. D.F. con controricorso. Entrambe le parti hanno depositato memorie ex art. 378 c.p.c Motivi della decisione La società ricorrente, denunciando violazione dell'art. 2103 c.c., e vizio di motivazione art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5 , sostiene che la Corte d'appello di Milano, nello svolgimento del suo ragionamento,avrebbe fatto riferimento alle mansioni svolte dal D.F., alla declaratoria contrattuale della sua categoria di inquadramento ASS , ma non a quella contrattuale della categoria inferiore AS alla quale la precedente declaratoria fa riferimento circostanza, questa, che concreterebbe sia la violazione dell'art. 2103 c.c., che l'insufficiente motivazione circa un fatto decisivo del giudizio. Il motivo, pur valutato nella sua duplice articolazione, è infondato in quanto, diversamente da quanto esposto dalla società ricorrente, la Corte di merito ha correttamente ed esaustivamente motivato la propria decisione attraverso un incensurabile iter logico-giuridico. Il Giudice di secondo grado, infatti, ha in primo luogo enucleato il differente contenuto professionale delle mansioni riconducibili alla categoria ASS rispetto a quelle della categoria AS così testualmente riportato nella sentenza della Corte d'Appello di Milano La declaratoria di questa categoria prevede, infatti, rispetto alla inferiore categoria AS un contenuto professionale di maggior rilievo per il più elevato grado di presenza di facoltà di rappresentanza attribuita dall'azienda, funzioni di sovrintendenza e di coordinamento di altri lavoratori, contenuto specialistico particolarmente elevato delle mansioni successivamente, alla luce delle risultante probatorie emerse nel primo grado di giudizio, ha comparato, attraverso la loro descrizione analitica, le mansioni in concreto svolte dal D.F. fino all'agosto del 1999 ovvero quelle di responsabile della contabilità analitica e responsabile della contabilità fornitori con quelle svolte successivamente a tale data ovvero quelle di controllo delle fatture con riferimento alle clausole contrattuali ed è quindi giunto ad accertare la sussistenza della dequalificazione a cui è stato sottoposto il lavoratore. Il procedimento logico-giuridico seguito dalla Corte d'Appello di Milano è pertanto corretto e conforme agli insegnamenti della Corte di legittimità, secondo cui, ai fini della verifica del legittimo esercizio dello ius variandi da parte del datore di lavoro, deve essere valutata dal giudice di merito - con giudizio di fatto incensurabile in cassazione ove adeguatamente motivato - la omogeneità tra le mansioni successivamente attribuite e quelle di originaria appartenenza, sotto il profilo della loro equivalenza in concreto rispetto alla competenza richiesta, al livello professionale raggiunto ed alla utilizzazione del patrimonio professionale acquisito dal dipendente nella pregressa fase del rapporto e nella precedente attività svolta Cass. n. 13173/09 . Con il secondo motivo la ricorrente, denunciando violazione o falsa applicazione dell'art. 2103 c.c., comma 2, e motivazione omessa o insufficiente circa un fatto decisivo e controverso art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5 , fonda la propria censura sull'assunto che l'art. 2103 c.c., sia norma derogabile con il consenso delle parti al fine di soddisfare un rilevante interesse del lavoratore e che, nel caso di specie, tale consenso alla deroga ci sia stato. Tale circostanza concreterebbe, secondo la ricorrente, sia la denunciata violazione di legge che il dedotto vizio di motivazione. Anche questo motivo è privo di fondamento. Come è noto, infatti, l'art. 2103 c.c., che tutela la professionalità del prestatore di lavoro nonchè il diritto a prestare l'attività lavorativa per la quale si è stati assunti o si è successivamente svolta, vietandone l'adibizione a mansioni inferiori, è norma imperativa e quindi non derogabile nemmeno tra le parti, come sancisce l'ultimo comma di tale norma Ogni patto contrario è nullo . Sul punto, pertanto, correttamente la Corte di merito ha osservato come fosse irrilevante che il D.F. avesse fatto valere la dequalificazione qualche mese dopo la sua assegnazione a nuove mansioni e che egli stesso avesse richiesto di essere assegnato a Milano all'ufficio commerciale Multiservizio-Fatturazione-Gestione. Con il terzo motivo, infine, la ricorrente, denunciando violazione o falsa applicazione degli artt. 1226 e 2697 c.c. e dell'art. 432 c.p.c. e violazione dei principi generali in tema di illecito e di danno in particolare degli artt. 1218, 1223, 1226, 2043, 2056, 2059 e 2087 c.c. vizio di motivazione art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5 , lamenta che la sentenza della Corte d'Appello, una volta accertato l'illegittimo demansionamento, non abbia provveduto a motivare in che cosa sussistesse il danno effettivamente patito dal D.F. ed abbia liquidato il risarcimento in carenza di deduzioni da parte dello stesso. In particolare, si sostiene che la Corte milanese abbia erroneamente considerato che il risarcimento del danno non patrimoniale, così come richiesto dal D.F., rilevi di per sè. L'assunto è infondato, in quanto le considerazioni svolte dalla Corte territoriale non conducono a tale conclusione, avendo la stessa, alla luce dell'istruttoria esperita, osservato come il lavoratore fosse stato assegnato all'uso dell'elaboratore elettronico senza la previa, necessaria istruzione e quindi con disagio dovuto all'evidente ed incolpevole imperizia e con conseguente pregiudizio per la dignità personale e per il prestigio professionale, tutelati dall'art. 35 Cost., comma 1. A tale proposito si evidenzia come questa Corte, abbia in più occasioni affermato che in caso di accertato demansionamento professionale del lavoratore in violazione dell'art. 2103 c.c., il giudice di merito, con apprezzamento di fatto incensurabile in cassazione se adeguatamente motivato, può desumere l'esistenza del relativo danno, determinandone anche l'entità in via equitativa, con processo logico - giuridico attinente alla formazione della prova, anche presuntiva, in base agli elementi di fatto relativi alla qualità e quantità della esperienza lavorativa pregressa, al tipo di professionalità colpita, alla durata del demansionamento, all'esito finale della dequalificazione e alle altre circostanze del caso concreto cfr., Cass. n. 8893/2010 Cass., n. 14729/2006 . Per quanto precede, il ricorso va rigettato. Le spese del presente giudizio, liquidate come da dispositivo, seguono la soccombenza. P.Q.M. La Corte rigetta il ricorso e condanna la ricorrente alle spese di questo giudizio, liquidate in Euro 58,00, oltre Euro 2.500,00 per onorari ed oltre spese generali, I.V.A. e C.P.A