Quando si realizza la fattispecie risarcitoria per la disdetta di un’immobile locato?

Relativamente alla disdetta in materia di locazione la fattispecie risarcitoria si realizza qualora, prima della scadenza del termine per il rilascio, il locatore concretamente destini l’immobile ad uso diverso da quello indicato nella disdetta. Non è sufficiente in tal senso la sola manifestazione di volontà. Se poi il contratto è cessato per mutuo consenso non è possibile per il locatore chiedere il risarcimento danni per atti unilaterali che non anno interferito con lo scioglimento del contratto.

Così si è espressa la Corte di Cassazione con sentenza n. 1424/17 depositata il 20 gennaio. Il caso. I locatori inviavano la disdetta del contratto di locazione stipulato con il soggetto ricorrente per ferma e irrevocabile volontà di uno dei proprietari di adibire l’immobile a propria abitazione. Il locatario, rinvenuta una nuova abitazione, riceveva dai locatori la revoca della disdetta precedentemente inviata. Rilevata l’invalidità e l’illegittimità di tale revoca, constatava che l’immobile, con l’invito rivolto ai proprietari a ritirare le chiavi, era da lui già stato rilasciato e che il locatore ancora non aveva adibito l’immobile ad abitazione principale. L’attore adiva in giudizio per ottenere il risarcimento dei danni e la sua domanda trovava accoglimento. I locatari proponevano ricorso in appello, vi resisteva l’ex locatario, la cui domanda risarcitoria veniva qui rigettata. Il ricorrente adisce dunque in Cassazione. Il termine di 10 giorni previsto per la notifica dell’appello nel rito del lavoro è perentorio? La prima doglianza rilevata dal ricorrente riguarda la notifica dell’atto d’appello avvenuto oltre il termine di 10 giorni dal deposito in cancelleria del decreto di fissazione dell’udienza di discussione e, di conseguenza, l’inammissibilità del giudizio. La Corte afferma che il motivo è infondato poiché il termine in questione, trattandosi di rito del lavoro, non è perentorio e, la sua inosservanza non comporta decadenza. Tale termine, aggiungono gli Ermellini, come previsto dall’art. 435, comma 2, c.p.c. non produce alcuna conseguenza pregiudizievole per la parte, perché non incide su alcun interesse di ordine pubblico processuale o su di un interesse dell’appellato . Se il contratto cessa per mutuo consenso non può essere chiesto il risarcimento dei danni causati da atti che non hanno rilevato allo scioglimento dello stesso. Proseguendo nell’esame del caso la Suprema Corte si trova ad affrontare la questione relativa all’invalidità e all’inefficacia della disdetta e alla conseguente domanda risarcitoria, rilevata dal ricorrente. Innanzitutto, in materia di locazione e più in particolare in caso di disdetta, la Cassazione afferma che, affinché si realizzi la fattispecie risarcitoria è necessario che prima della scadenza del termine previsto per il rilascio, il locatore concretamente destini l’immobile ad uso diverso da quello indicato nella disdetta, non essendo sufficiente una manifestazione di intenzione in tal senso . Nel caso di specie però, evidenzia la Corte, il contratto di locazione non è cessato per la disdetta e la conseguente revoca di quest’ultima ma per mutuo consenso tra le parti, poiché il conduttore aveva rilasciato l’immobile con accettazione senza riserve da parte dei locatori. Pertanto, risultando privi di interesse i motivi attinenti alla sequenza diniego-revoca, rileva qui solamente l’accertamento di una risoluzione per mutuo consenso del contratto avvenuta successivamente sul piano temporale ma non in conseguenza ad essa. Vi è quindi un’assoluta indipendenza dei precedenti atti unilaterali dei locatori rispetto allo scioglimento del contratto e per questo motivo la doglianza deve ritenersi infondata. La Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.

Corte di Cassazione, sez. III Civile, sentenza 23 novembre 2016 – 20 gennaio 2017, numero 1424 Presidente Ambrosio – Relatore Graziosi Svolgimento del processo 1. Con ricorso depositato il 2 dicembre 2008 C.G. adiva il Tribunale di Palermo, sezione distaccata di Monreale, esponendo di avere preso in locazione da G.G. e G.P. in data 29 ottobre 2003 un immobile ad uso abitativo, stipulando un contratto della durata di 4 + 4 anni ai sensi dell’articolo 2 l. 431/1998, e che i locatori, con raccomandata del 24 febbraio 2007, gli avevano inviato disdetta per la prima scadenza del 29 ottobre 2007 per ferma e irrevocabile volontà di G.G. di adibire l’immobile a propria abitazione. Esponeva altresì il ricorrente di avere rinvenuto nell’agosto 2007 un altro immobile per abitazione, ma che inaspettatamente il 17 settembre 2007 i locatori gli comunicavano revoca della disdetta, cui egli rispondeva con lettera del suo avvocato del 28 settembre 2007 dichiarando di ritenerla invalida e illegittima e comunicando di aver già rilasciato l’immobile, di cui invitava i locatori a ritirare delle chiavi. In data 13 ottobre 2007 veniva loro consegnato l’immobile, e fino a tale data G.G. non aveva ancora adibito l’immobile ad abitazione principale. Ritenendo quindi violato dai locatori l’articolo 3 I. 431/1998, chiedeva il ricorrente che questi, previa dichiarazione di illegittimità/illiceità della disdetta, fossero condannati a risarcirgli i conseguenti danni. Si costituivano resistendo i G. all’esito del giudizio, con sentenza numero 71/2011, il Tribunale li condannava a risarcire il C. per 36 mensilità di canone Euro 17.214,46 , oltre interessi legali e rivalutazione, nonché a rifondergli le spese processuali. Avendo i G. proposto appello, ed essendosi controparte costituita resistendo, con sentenza del 6-23 maggio 2014 la Corte d’appello di Palermo ha accolto l’appello, rigettando la domanda risarcitoria e compensando le spese di ambo i gradi. 2. Ha presentato ricorso il C. , sulla base di sette motivi. 2.1 n primo motivo - identificato nel ricorso come motivo A - denuncia, ex articolo 360, primo comma, numero 3 c.p.c., violazione e/o falsa applicazione del combinato disposto degli articoli 435, 154 c.p.c. e 111 Cost., per essere inammissibile e/o improcedibile l’appello. Adduce il ricorrente che gli appellanti notificarono l’atto d’appello in data 8 maggio 2012, e quindi oltre il termine di 10 giorni dalla emissione e dal deposito del decreto di fissazione dell’udienza di discussione stabilito dall’articolo 435 c.p.c La corte territoriale afferma che trattasi di termine non perentorio ma anche per i termini ordinatori sussistono regole, per cui sono prorogabili su istanza ma soltanto se non già scaduti e per motivi gravi e indicati nel provvedimento di proroga, per non incorrere in effetti procrastinatori. Inoltre non sana la violazione del termine la costituzione dell’appellato, perché l’esigenza del giusto processo prevale sul principio di conservazione. Nel caso in esame sarebbe stato violato il diritto di difesa del ricorrente per il mancato rispetto del termine, cioè del lasso temporale che il legislatore pone a disposizione per esercitarlo. 2.2 Il secondo motivo - identificato nel ricorso come motivo B - denuncia, ex articolo 360, primo comma, numero 3 c.p.c., violazione e/o falsa applicazione del combinato disposto degli articoli 3 l. 431/1998, 1175, 1375, 1324, 1344, 1329 e 1372, primo comma, c.c., invalidità e inefficacia della disdetta, abuso del diritto, violazione del principio di conformità del contrarius actus rispetto al diniego, insussistenza della risoluzione del contratto per mutuo consenso. Viene richiamata giurisprudenza di questa Suprema Corte Cass. sez. 3, 29 settembre 2005 numero 19132 per cui il diniego ex articolo 3 l. 431/1998 non comporta automatica cessazione della locazione, bensì avvia una sequenza procedimentale, onde è determinante la posizione che assume il conduttore, il quale o presenta acquiescenza oppure suscita il controllo giurisdizionale con lo speciale procedimento di cui all’articolo 30 l. 392/1978. Ma l’acquiescenza non produce la risoluzione per mutuo consenso, poiché la genesi della cessazione del rapporto rimane nell’esercizio del diritto potestativo alla disdetta da parte del locatore. Da ciò dovrebbe desumersi che la revoca del diniego è impossibile almeno fino alla scadenza naturale del contratto locatizio in primo luogo perché il diniego è un atto unilaterale e perciò ex articolo 1324 c.c. assoggettato alle norme contrattuali in quanto compatibili, il che rende applicabile l’articolo 1329 c.c. per cui come per la proposta irrevocabile il diniego è da ritenersi irrevocabile solo decorso il termine previsto dalla parte e dunque avvenuta la naturale scadenza del contratto e in secondo luogo perché il diniego è il primo atto di una sequenza, per cui sarebbe contrario alla buona fede, con violazione degli articoli 1375 e 1175 c.c., ritenere ammissibile la revoca del diniego almeno fino alla scadenza del contratto, dato che buona fede significa dovere di solidarietà ai sensi dell’articolo 2 Cost. nel senso che ogni parte deve tutelare l’interesse dell’altra il ricorrente richiama in ordine a tale concetto di buona fede Cass. sez. 1, 27 ottobre 2006 numero 123273 . Nel caso specifico, una volta ricevuta la disdetta, il ricorrente non avrebbe avuto alcun motivo per dubitare dell’effettività dell’intenzione dei locatori, e d’altronde la manifestazione del diniego gode di una presunzione di serietà. Nel caso in esame, i locatori poi, inviando la disdetta, che manifestava la volontà ferma e irrevocabile di destinare l’immobile a propria abitazione, non avrebbero concesso sostanzialmente al conduttore altra alternativa se non quella di aderire rilasciando l’immobile alla futura scadenza, e avrebbero quindi ingenerato nel conduttore il ragionevole affidamento sulla prossima cessazione del contratto. Pertanto la revoca sarebbe stata violazione di buona fede commessa dal locatore nella esecuzione del contratto, e si sarebbe raggiunto l’abuso del diritto, perché la revoca fu formulata a ridosso della scadenza, anche a prescindere dal fatto che veniva a contrastare con la natura irrevocabile che gli stessi locatori avevano dato alla disdetta. Ed oltre all’abuso del diritto, sarebbe da ravvisare intento di frode alla legge con violazione degli articoli 1344 c.c. e 3 l. 431/1998, proprio per la prossimità temporale della revoca alla scadenza. Se poi la revoca non si ritenesse invalida, si verrebbe a consentire al locatore il recesso alla prima scadenza al di fuori delle ipotesi tassative di cui all’articolo 3 l. 431/1998, illegittimamente privando il conduttore della tutela ripristinatoria o risarcitoria stabilita dalla stessa norma. 2.3 I terzo motivo - identificato nel ricorso come motivo C - denuncia, ex articolo 360, primo comma, numero 3 c.p.c., violazione e/o falsa applicazione del combinato disposto degli articoli 3 l. 431/1998, 1175 e 1375 c.c., violazione di buona fede e abuso del diritto nonché inversione dell’onere della prova. Il conduttore non avrebbe avuto l’onere di informare i locatori del reperimento di altra abitazione semmai sarebbe stato onere dei locatori dimostrare che il conduttore non si era allo scopo attivato. Il conduttore comunque aveva allegato tra i fatti principali della sua domanda risarcitoria l’essersi attivato ed avere reperito un altro immobile proprio a causa della disdetta, onde la condotta dei locatori, contrariamente a quanto ritenuto dalla corte territoriale, sarebbe scorretta e improntata a malafede in danno del conduttore. 2.4 Il quarto motivo - identificato nel ricorso come motivo D - lamenta, ex articolo 360, primo comma, numero 5 c.p.c., omesso esame di fatto decisivo e motivazione inesistente e/o meramente apparente sulle eccepita invalidità/inefficacia della revoca, avendo la corte territoriale palesemente omesso di esaminare e quindi di motivare la questione controversa relativa alla invalidità della revoca del diniego . a distanza di meno di un mese rispetto alla naturale scadenza la sentenza sarebbe dunque nulla per difetto di motivazione. 2.5 I quinto motivo - identificato nel ricorso come motivo E - denuncia, ex articolo 360, primo comma, numero 5 c.p.c., omesso esame di fatto decisivo, con conseguente travisamento dei fatti e/o omessa, insufficiente e/o erronea e/o illogica motivazione sull’asserita risoluzione per mutuo consenso. Ritenere che vi fu risoluzione del contratto per mutuo consenso sarebbe erronea conseguenza derivante dal fatto che la Corte di Appello di Palermo, come esposto nel precedente motivo di impugnazione sub D , ha affermato in maniera immotivata, apodittica ed erronea la validità della revoca , perché così, travisando i fatti , ha omesso di considerare un altro punto decisivo, e cioè che la consegna dell’immobile trovava la propria genesi nel diniego di rinnovo del 24 febbraio 2007. Ad avviso del ricorrente, quindi, la motivazione della sentenza impugnata sarebbe incorsa in un salto logico e sarebbe poi illogico ritenere che l’accettazione delle chiavi senza riserve da parte dei locatori possa determinare la risoluzione consensuale del contratto . 2.6 Il sesto motivo - identificato nel ricorso come motivo F - denuncia, ex articolo 360, primo comma, numero 4 c.p.c., nullità della sentenza per ultrapetizione nel pronunciare d’ufficio la risoluzione consensuale senza eccezione né domanda al riguardo il ricorrente aveva solo esercitato azione risarcitoria e i locatori solo sostenuto l’infondatezza della domanda attorea. 2.7 Il settimo motivo - identificato nel ricorso come motivo G - denuncia violazione e/o falsa applicazione dell’articolo 91 c.p.c. poiché, per soccombenza, gli appellanti avrebbero dovuto essere condannati a rifondere a controparte le spese dei due gradi di merito. Dal ricorso si sono difesi con controricorso G.G. e G.P. . Motivi della decisione 3. Il ricorso è infondato. 3.1 D primo motivo motivo A ripropone quanto si era già prospettato al giudice d’appello, ovvero, come quest’ultimo sintetizza nella motivazione, l’inammissibilità, per violazione del combinato disposto di cui agli artt. 435 e 154 c.p.c., atteso che l’atto di appello era stato notificato in data 8 maggio 2012, oltre il termine di giorni 10 rispetto alla data del 18 aprile 2012 di emissione e deposito del decreto di fissazione di udienza di discussione , aggiungendo il ricorrente la violazione dell’articolo 111 Cost. per non avere l’appellante consentito a controparte di godere del lasso di tempo previsto dalla legge per esercitare il suo diritto di difesa. La corte territoriale aveva opposto che nel rito del lavoro il termine dell’articolo 435, secondo comma, c.p.c., concesso all’appellante per la notifica del ricorso e del decreto di fissazione d’udienza, non ha natura perentoria, per cui la sua inosservanza non comporta decadenza, onde l’appello non poteva definirsi inammissibile. La posizione assunta dalla Corte d’appello di Palermo è del tutto conforme alla giurisprudenza di legittimità della quale infatti vengono citati dalla corte territoriale alcuni arresti, pur assai risalenti , per cui appunto il termine previsto dall’articolo 435, secondo comma, c.p.c., ovvero il termine di dieci giorni entro il quale l’appellante deve notificare all’appellato il ricorso unitamente al decreto di fissazione dell’udienza di discussione, non è perentorio e comunque la sua inosservanza non comporta alcuna decadenza, dal momento che non produce alcuna conseguenza pregiudizievole per la parte, perché non incide su alcun interesse di ordine pubblico processuale o su di un interesse dell’appellato, sempre che sia rispettato il termine che, in forza del medesimo art. 435, terzo e quarto comma, c.p.c. deve intercorrere tra il giorno della notifica e quello dell’udienza di discussione così ben sintetizza l’insegnamento nomofilattico la massima di Cass. sez. 6-3, ord. 16 ottobre 2013 numero 23426 sulla stessa linea Cass. sez. L, 29 febbraio 2016 numero 3959, Cass. sez. L, 31 maggio 2012 numero 8685, Cass. sez. L, 30 dicembre 2010 numero 26489, Cass. sez. 6-1, ord. 15 ottobre 2010 numero 21358, Cass. sez. 3, 29 novembre 2005 numero 26039, Cass. sez. L, 22 giugno 1994 numero 5997 e Cass. sez. L, 6 agosto 1993 numero 8711 . Quel che rileva, invero, come è evincibile pure dalla ordinanza numero 60/2010 della Corte Costituzionale, è l’effettività del rispetto del termine di comparizione indicato dal terzo e dal quarto comma dello stesso articolo 435 c.p.c., ovvero che resti garantito all’appellato uno spatium deliberandi non inferiore a quello legale prima dell’udienza di discussione affinché possa approntare le sue difese. Le argomentazioni del ricorrente non sono idonee ad inficiare questo insegnamento consolidato, sfociandosi d’altronde, a ben guardare, in un mero e generico asserto in ordine al mancato rispetto del termine per esercitare il diritto di difesa, senza individuare come, in concreto, questo suo diritto sia stato leso in conseguenza della notifica del ricorso e del decreto in data 8 maggio 2012. Il motivo, quindi, non merita accoglimento. 3.2 Per meglio comprendere le ulteriori doglianze versate nel ricorso, è opportuno a questo punto tracciare una sintesi della decisione del giudice d’appello quanto alle vicende del contratto locatizio in questione. La corte territoriale, dopo aver ricostruito sinteticamente tali vicende disdetta del 24 febbraio 2007 per il 29 ottobre 2007, revoca della disdetta il 17 settembre 2007, rilascio dell’immobile il 13 ottobre 2007 e dato atto che ai sensi dell’articolo 3, terzo comma, I. 431/1998, se il locatore di un immobile ad uso abitativo ne riacquista la disponibilità per illegittimo esercizio della facoltà di disdetta prevista dallo stesso articolo, deve risarcire il conduttore, osserva che, in forza dei suoi commi terzo e quinto, è necessario per realizzare la fattispecie risarcitoria che, prima della scadenza del termine normativamente previsto, il locatore concretamente destini l’immobile ad uso diverso da quello indicato nella disdetta , non essendo sufficiente una manifestazione di intenzione in tal senso. Ma nel caso in esame i locatori, osserva ancora la corte, non hanno ricevuto la disponibilità dell’immobile in conseguenza della disdetta del 24 febbraio 2007, perché gli effetti di quest’ultima sono venuti meno per la revoca del 17 settembre 2007, data anteriore alla prima scadenza e quindi al rilascio. Invece il contratto è terminato per mutuo consenso delle parti, avendo il conduttore rilasciato l’immobile il 13 ottobre 2007 con accettazione senza riserve del locatori. Irrilevante poi è che la lettera di comunicazione della disdetta abbia determinato l’affidamento del conduttore, che ha stipulato contratto locatizio per un altro immobile, perché manca la prova che di tale nuovo contratto siano stati informati i G. e che quindi la successiva revoca abbia costituito un comportamento in malafede in danno del conduttore. In conclusione, non sussiste la fattispecie risarcitoria ex articolo 3 l. 431/1998. 3.3 La motivazione, per quanto scarna, è sufficientemente chiara il giudice d’appello ha escluso la suddetta fattispecie risarcitoria, ma non sulla base di una interpretazione sfavorevole all’attuale ricorrente dell’articolo 3 l. 431/1998. Ha invece ritenuto che la tematica della disdetta, della sua revoca e della validità di questa sia stata cancellata da una condotta innovativa e concorde degli attuali litigatores ovvero che, dopo la sequenza del diniego del secondo stadio quadriennale del contratto, della comunicazione della revoca del diniego e del reazione del conduttore, le parti siano addivenute a un nuovo accordo, il cui contenuto è stato la cessazione del rapporto contrattuale locatizio. Il contratto di locazione, dunque, non è cessato per la disdetta, onde ha perso rilievo anche la revoca di quest’ultima il contratto invece ha avuto termine a seguito di mutuo consenso tra le parti, avendo il conduttore riconsegnato l’immobile il 13 ottobre 2007, con accettazione senza riserve da parte dei locatori . Se è questa, allora, la reale ratio decidendi su cui si è fondato il giudice d’appello, risultano privi di interesse alcuno che li sostenga i motivi attinenti a quel che, in tal modo, il giudice si è, per così dire, gettato alle spalle, ovvero alla sequenza diniego-revoca del diniego. Rileva, invece, unicamente l’accertamento di una risoluzione per mutuo consenso del contratto avvenuta successivamente sul piano temporale a tale sequenza ma non in conseguenza di essa un post hoc che non è affatto un propter hoc . Cadono, dunque, in motivi B, C e D, dovendosi peraltro precisare per il motivo B che laddove adduce, nella sua rubrica, l’insussistenza della risoluzione per mutuo consenso del contratto locatizio, si correla, nella sua illustrazione, all’argomento che l’acquiescenza del conduttore non ha causato la risoluzione del contratto per mutuo consenso, perché la genesi della cessazione del rapporto è comunque identificabile nell’esercizio, da parte del locatore, del suo diritto di dare disdetta. È evidente, quindi, che questo motivo nega l’esistenza di un accordo tra le parti che abbia sciolto il contratto locatizio in assoluta indipendenza dai precedenti atti unilaterali del locatori il che significa che contesta, direttamente sul piano fattuale, quello che ha accertato il giudice d’appello, proponendo in parte qua una censura inammissibile perché non rispettosa della tassatività dei vizi denunciabili in ricorso per cassazione indicati dall’articolo 360 c.p.c Residuano ora, pertanto, i motivi E e F. 3.4 Il motivo E, ovvero il quinto motivo del ricorso, come si è visto più sopra, viene rubricato ex articolo 360, primo comma, numero 5 c.p.c Il suo effettivo contenuto, peraltro, non corrisponde al vizio motivazionale. Quel che in realtà viene censurato è ancora, direttamente, l’accertamento fattuale operato del giudice d’appello, ovvero che le condotte delle attuali parti abbiano integrato la manifestazione di un concorde consenso per la risoluzione del contratto. Il ricorrente tenta di ricondurre ciò nel vizio motivazionale disegnato dall’articolo 360, primo comma, numero 5 c.p.c., ma senza successo a parte che, se vi fosse un travisamento dei fatti, sarebbe applicabile il diverso rimedio di cui all’articolo 395 numero 4 c.p.c., nel caso di specie non può ritenersi che la motivazione sia apparente o raggiunga un livello di intrinseca illogicità tale da essere svuotata della sua funzione di trasparenza costituzionale e quindi ancora censurabile proprio in forza dell’articolo 360, primo comma, numero 5 c.p.c. secondo il suo dettato vigente si ricorda che il giudice nomofilattico ha ben chiarito che, anche con il testo vigente della suddetta norma, la motivazione deve comunque soddisfare il minimo costituzionale , e dunque deve essere effettivamente esistente, sia dal punto di vista materiale, sia dal punto di vista della non apparenza, sia dal punto di vista della sua comprensibilità, quest’ultimo profilo riverberandosi, logicamente, non solo sulla necessità di non fornire argomentazioni di per sé perplesse/incomprensibili, ma altresì su quella di non argomentare attraverso affermazioni assolutamente inconciliabili S.U. 7 aprile 2014 numero 8053 . La corte territoriale, invero, attraverso una motivazione non apparente o comunque non incomprensibile, ha interpretato proprio i fatti che le sono stati addotti dalle parti e dell’accertamento che essa ne ha così tratto il ricorrente chiede in realtà una revisione in punto di merito, travalicando i limiti della giurisdizione di legittimità cfr. pure Cass. sez. 6-3, 9 giugno 2014 numero 12928 - che ribadisce come dopo la riforma dell’articolo 360, primo comma, numero 5, c.p.c. la ricostruzione del fatto operata dai giudici di merito è sindacabile in sede di legittimità solo se la motivazione è del tutto mancante oppure è affetta da vizi giuridici consistenti nell’essere articolata su argomenti tra loro manifestamente e immediatamente inconciliabili oppure perplessi od obiettivamente incomprensibili - nonché Cass. sez. L, 21 ottobre 2015 numero 21439 - per cui, in sede di legittimità, è precluso l’accertamento dei fatti ovvero la loro valutazione ai fini istruttori, e ciò tanto più dopo la suddetta riforma - . Il motivo risulta pertanto inammissibile e, oltre a ciò, quanto appena rilevato conduce alla inconsistenza pure il seguente sesto motivo, il motivo F lungi dal violare l’articolo 112 c.p.c., la corte territoriale ha così accertato il significato dei fatti che le sono stati addotti dalle parti, operando la classica cognizione di merito. Da ciò deriva, a questo punto, l’inaccoglibilità del ricorso, il settimo motivo essendo stato proposto, ovviamente, per l’ipotesi in cui la sentenza d’appello avesse meritato di essere cassata, ipotesi che, come si è appena visto, non ricorre. In conclusione, il ricorso deve essere rigettato, con conseguente condanna del ricorrente alla rifusione a controparte delle spese processuali, liquidate come da dispositivo. Sussistono ex articolo 13, comma 1 quater, d.p.r. 115/2012 i presupposti per il versamento da parte del ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del comma 1 bis dello stesso articolo. P.Q.M. Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente a rifondere a controparte le spese processuali, liquidate in un totale di Euro 2300, di cui Euro 200 per spese vive, oltre gli accessori di legge. Ai sensi dell’articolo 13, comma 1 quater, d.p.r. 115/2002 dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente principale, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso principale, a norma del comma 1 bis dello stesso articolo 13.