La risoluzione può intervenire in caso di inadempimento grave e rilevante di una delle parti

La diffida non determina risoluzione di diritto del contratto la risoluzione deve essere dichiarata dal giudice.

Lo ha affermato la Corte di Cassazione con la sentenza n. 9317/16, depositata il 9 maggio. Il caso. Due parti stipulavano un contratto preliminare di compravendita immobiliare. Il promissario acquirente, conveniva in giudizio il promissario venditore affinché fosse accertata la malafede del promissario venditore, la difformità del cespite rispetto al bene originariamente promesso e la difformità rispetto alla concessione edilizia. Parte attrice chiedeva la condanna di parte convenuta a pagare una somma pari al doppio della caparra confirmatoria originariamente versata. Parte convenuta, chiedeva accertarsi la risoluzione del contratto per inadempimento della parte promissaria acquirente, per non aver voluto stipulare il contratto definitivo, con conseguente diritto a tenere per se la caparra originariamente versata. Il Tribunale accoglieva la difesa di parte convenuta. La Corte d'appello confermava la decisione di primo grado. Le parti hanno proposto ricorso per cassazione. Recesso ed inadempimento. Il versamento della caparra confirmatoria non modifica logiche e criteri del diritto di parte di esercitare la risoluzione per inadempimento. Pertanto, la legittimità del recesso per inadempimento, anche in caso di caparra confirmatoria, discende dalla gravità dell'inadempimento di controparte. Secondo consolidato orientamento giurisprudenziale, per la gravità dell'inadempimento occorre effettuare una valutazione comparativa del comportamento di entrambi i contraenti in relazione al contratto, tenendo conto dei precetti generali sull'imputabilità e l'importanza dell'inadempimento, nonché, per quanto riguarda le singole pattuizioni, stabilire quale dei due abbia fatto venir meno, con il proprio comportamento, l'interesse dell'altro al mantenimento del contratto - Cass. Civ. n. 9158/1991. Diffida ad adempiere e risoluzione di diritto. Parte attrice ha sostenuto che la risoluzione di diritto del contratto preliminare si sarebbe verificata a seguito di diffida ad adempiere ignorata da parte convenuta. La S.C. ha chiarito che la diffida ad adempiere ha lo scopo di realizzare, pur in mancanza di una clausola risolutiva espressa, gli effetti che a detta clausola si ricollegano e, cioè, la rapida risoluzione del rapporto mediante la fissazione di un termine essenziale nell'interesse della parte adempiente, cui è rimessa la valutazione di farne valere la decorrenza e che può rinunciare ad avvalersi della risoluzione già verificatasi. La diffida è stabilita nell'interesse della parte adempiente e costituisce non un obbligo ma una facoltà che si esprime a priori nella libertà di scegliere questo mezzo di risoluzione del contratto a preferenza di altri e a posteriori nella possibilità di rinunciare agli effetti risolutori già prodotti - Cass. Civ. n. 23315/2007. Dunque, spirato il termine spetterà al diffidante chiarire se effettivamente intende valersi della diffida oppure no in ogni caso, la risoluzione deve essere dichiarata dal giudice previo verifica di effettiva gravità dell'inadempimento. Irrilevanza dell'inadempimento. I Giudici di legittimità, dopo aver esposto e chiarito il percorso logico posto a fondamento della decisione, hanno rilevato e ritenuto correttamente motivata la decisione della Corte territoriale nella parte in cui ha ritenuto non rilevante e, comunque, non determinante l'inadempimento contestato da parte attrice ed imputato alla parte convenuta. Con queste argomentazioni la S.C. ha respinto il ricorso.

Corte di Cassazione, sez. II Civile, sentenza 8 marzo – 9 maggio 2016, n. 9317 Presidente Matera – Relatore Falabella Svolgimento del processo R.S.M. e S.M. , con citazione notificata il 24 maggio 2004, convenivano in giudizio, avanti al Tribunale di Bergamo, Residence Chiara s.r.l. chiedendo che venisse accertata la legittimità del loro recesso dal contratto preliminare di compravendita immobiliare del 10 ottobre 2002 per la malafede precontrattuale della controparte, la condotta contraria a correttezza e buona fede della stessa e i pretesi vizi dell’immobile promesso in vendita, oltre che per le difformità dello stesso rispetto alla concessione edilizia rilasciata. Gli attori chiedevano quindi che la società evocata in giudizio fosse condannata al pagamento della somma di Euro 60.000,00, pari al doppio della caparra confirmatoria versata, oltre interessi. Residence Chiara si costituiva, chiedeva il rigetto della domanda attrice e, in via riconvenzionale, domandava che fosse accertata la legittimità del proprio recesso dal contratto preliminare, in relazione al rifiuto di controparte di concludere il contratto chiedeva altresì l’accertamento del proprio diritto a trattenere la caparra confirmatoria. Il Tribunale di Bergamo rigettava la domanda attrice e dichiarava che la convenuta aveva il diritto di ritenere la somma ricevuta al titolo di caparra. Proponevano appello gli attori i quali, in via subordinata, domandavano che fosse accertata la risoluzione ex art. 1454 del contratto preliminare, con condanna dell’appellata alla restituzione dell’importo da essa trattenuto. La società Residence Chiara resisteva all’impugnazione. La Corte di appello di Brescia, con sentenza depositata il 22 giugno 2010, respingeva il gravame. Questa pronuncia stata impugnata per cassazione da R. e S. con ricorso affidato a cinque motivi. Resiste con controricorso Residence Chiara. Entrambe le parti hanno depositato memoria. Motivi della decisione Con il primo motivo è lamentata violazione e falsa applicazione degli artt. 1385, 1454, 1455 c.c I ricorrenti censurano la decisione impugnata per avere la stessa ritenuto legittimo il recesso della promittente venditrice senza valutare in modo appropriato le inadempienze in cui questa era incorsa. La corte di merito aveva limitato l’oggetto della propria indagine all’inesistenza di un inadempimento, da parte della società, che fosse sufficientemente grave e tale da giustificare il recesso dei ricorrenti, ma aveva mancato di accertare se i medesimi avessero maturato il diritto di rifiutare la conclusione del contratto e ciò avendo riguardo anche alla facoltà, in capo agli stessi promissari acquirenti, di sospendere l’adempimento della propria obbligazione ex art. 1460. Il motivo va disatteso. La disciplina dettata dal secondo comma dell’art. 1385 c.c., in tema di recesso per inadempimento nell’ipotesi in cui sia stata prestata una caparra confirmatoria, non deroga alla disciplina generale della risoluzione per inadempimento, consentendo il recesso di una parte solo quando l’inadempimento dell’altra sia colpevole e di non scarsa importanza in relazione all’interesse dell’altro contraente. È vero, dunque, che nell’indagine sull’inadempienza contrattuale da compiersi al fine di stabilire se ed a chi spetti il diritto di recesso, i criteri da adottarsi sono quegli stessi che si debbono seguire nel caso di controversia su reciproche istanze di risoluzione nel senso che occorre procedere a una valutazione comparativa del comportamento di entrambi i contraenti in relazione al contratto, in modo da stabilire quale di essi abbia fatto venir meno, con il proprio comportamento, l’interesse dell’altro al mantenimento del negozio, cfr. Cass. 23 gennaio 1989, n. 398 in senso analogo, Cass. 27 agosto 1991, n. 9158 . Ineccepibile appare allora la valutazione spesa dalla corte lombarda in ordine alla trascurabile importanza dell’inadempimento della promittente venditrice giacché a fronte della denuncia, da parte dei promittenti acquirenti, di inadempienze in larga parte insussistenti, e ove esistenti, del tutto marginali nell’economia complessiva del contratto lettere C, E, G, H della sentenza impugnata , soggetti cui addebitare la risoluzione del contratto preliminare dovevano essere identificati negli appellanti, oggi ricorrenti per cassazione, che avevano rifiutato di dare esecuzione al programma contrattuale. Quanto al profilo attinente all’eccezione di inadempimento, i ricorrenti non chiariscono se e quando la questione oggetto del primo motivo di ricorso sia stata da loro trattata nelle precedenti fasi del giudizio. Qualora con il ricorso per cassazione siano prospettate questioni di cui non vi sia cenno nella sentenza impugnata, è onere della parte ricorrente, al fine di evitarne una statuizione di inammissibilità per novità della censura, non solo di allegare l’avvenuta loro deduzione innanzi al giudice di merito, ma anche, in ossequio al principio di autosufficienza del ricorso stesso, di indicare in quale specifico atto del giudizio precedente lo abbia fatto, onde dar modo alla Suprema Corte di controllare ex actis la veridicità di tale asserzione prima di esaminare il merito della suddetta questione Cass. 18 ottobre 2013, n. 23675 cfr. pure Cass. 28 luglio 2008, n. 20518 Cass. 26 febbraio 2007, n. 4391 Cass. 12 luglio 2006, n. 14599 Cass. 2 febbraio 2006, n. 2270 . Peraltro, la proposizione dell’eccezione ex art. 1460 c.c. non avrebbe escluso il raffronto tra le rispettive inadempienze, di cui si è detto infatti, ove venga proposta dalla parte l’eccezione inadimplenti non est adimplendum , il giudice deve procedere ad una valutazione comparativa degli opposti inadempimenti avuto riguardo anche allo loro proporzionalità rispetto alla funzione economico-sociale del contratto e alla loro rispettiva incidenza sull’equilibrio sinallagmatico, sulle posizioni delle parti e sugli interessi delle stesse, per cui qualora rilevi che l’inadempimento della parte nei cui confronti è opposta l’eccezione non è grave ovvero ha scarsa importanza, in relazione all’interesse dell’altra parte a norma dell’art. 1455 c.c., deve ritenersi che il rifiuto di quest’ultima di adempiere la propria obbligazione non sia in buona fede e, quindi, non sia giustificato ai sensi dell’art. 1460, 2 co. c.c. Cass. 6 luglio 2009, n. 15796 Cass. 16 maggio 2006, n. 11430 Cass. 3 luglio 2000, n. 8880 . La proposizione dell’eccezione non avrebbe quindi mutato i termini della questione e non avrebbe imposto una indagine differente rispetto a quella svolta dalla corte territoriale. Il secondo motivo denuncia insufficienza e contraddittorietà della motivazione su un punto decisivo dalla controversia. Si spiega che la corte distrettuale aveva motivato l’inammissibilità della domanda di risoluzione del contratto per la sua novità, senza rilevare che vi era stata una riduzione quantitativa della domanda restitutoria, limitata all’importo della caparra versata. Rilevano poi i ricorrenti che la risoluzione del contratto a seguito della diffida ad adempiere si era prodotta di diritto e, per ciò stesso, era rilevabile d’ufficio da tale scioglimento del rapporto contrattuale discendeva, poi, l’impossibilità di configurare il recesso, che costituiva una dichiarazione tendente a far cessare gli effetti di un rapporto contrattuale in corso. Il motivo è infondato. La risoluzione di diritto del contratto si sarebbe prodotta, secondo la prospettazione dei ricorrenti, a seguito della diffida ad adempiere che la controricorrente aveva loro intimato con lettera del 3 maggio 2004. La società Immobiliare Chiara non ha tuttavia agito per la declaratoria della risoluzione di diritto del contratto ex art. 1454 c.c. - la quale si sarebbe determinata in conseguenza della diffida ad adempiere del 3 maggio 2004 preferendo domandare l’accertamento del proprio diritto di ritenere la caparra, previa declaratoria della legittimità del recesso dal contratto preliminare, siccome esercitato con comunicazione del 24 maggio 2003. Come è noto, la diffida ad adempiere costituisce una facoltà che si esprime nella libertà di scegliere tale mezzo di risoluzione del contratto a preferenza di altri e nella possibilità di rinunciare agli effetti risolutori già prodotti il che rientra nell’ambito delle facoltà connesse all’esercizio dell’autonomia privata al pari della rinuncia al potere di ricorrere al congegno risolutorio di cui all’art. 1454 c.c. Cass. 8 novembre 2007, n. 23315 in tema cfr. ad es. pure Cass. l aprile 2005, n. 6891 . Il principio trova applicazione anche con riguardo a fattispecie quale quella in esame infatti, il contraente non inadempiente che abbia intimato diffida ad adempiere alla controparte, dichiarando espressamente che, allo spirare del termine fissato, il contratto si avrà per risoluto di diritto, ben può rinunciare, successivamente, anche attraverso comportamenti concludenti, alla diffida ed al suo effetto risolutivo Cass. 4 agosto 1997, n. 7182 . D’altro canto, il termine contenuto nella diffida ha carattere essenziale in relazione agli effetti che la legge riconnette alla sua inosservanza e soltanto al creditore, nel cui esclusivo interesse l’essenzialità è posta, è rimessa la valutazione della convenienza di far valere l’inutile decorso di quel termine sicché l’effetto risolutorio rimane nella libera disponibilità di detto soggetto. Ciò è tanto vero che il giudice non potrebbe dichiarare d’ufficio la risoluzione del contratto a seguito dell’inutile decorso del termine indicato nella diffida, senza che vi sia stata apposita domanda del creditore Cass. 18 maggio 1987, n. 4535 Cass. 31 maggio 1971, n. 1637 . Appare allora evidente che, contrariamente a quanto affermato dai ricorrenti, la corte di merito non potesse rilevare d’ufficio la risoluzione del contratto per effetto dell’inutile decorso del termine di cui alla diffida ad adempiere. E appare altrettanto evidente che, anche a voler prescindere dal profilo relativo alla novità della domanda - profilo che ha ad oggetto un dato incontestabile, visto che la domanda stessa fu proposta in appello -, gli odierni ricorrenti non potessero ottenere una pronuncia di risoluzione del contratto sia in quanto non vi erano legittimati, sia in quanto la controricorrente - unico soggetto titolato ad avvalersi dell’intimata diffida - aveva manifestato, nei fatti, la propria intenzione di non profittare dell’effetto risolutivo dipendente dalla propria precedente iniziativa. Col terzo motivo la sentenza è fatta oggetto di censura per violazione e falsa applicazione degli artt. 1373 e 1385 c.c Lamentano i ricorrenti che la corte di Brescia avesse ritenuto che le uniche inadempienze suscettibili di apprezzamento fossero quelle denunciate con la comunicazione di recesso. Rilevano che l’assunto secondo cui essi istanti non avrebbero potuto fondare in giudizio la legittimità del proprio recesso con allegazioni diverse rispetto a quelle desumibili dalla comunicazione dello stesso non aveva fondamento in punto di diritto. Il motivo è inammissibile. Devono valere, in proposito, le considerazioni svolte trattando del primo motivo, presentando la censura carattere di novità. Nella sentenza impugnata pag. 9 si legge che il tribunale aveva attribuito rilievo alle sole mancanze dell’immobile promesso in vendita che erano state denunciate con la comunicazione di recesso. Ebbene, né la pronuncia della Corte di Brescia, né il ricorso per cassazione danno conto del fatto che tale affermazione del giudice di primo grado costituì oggetto di un motivo di gravame. Il quarto mezzo si incentra sempre su di una motivazione insufficiente e contraddittoria riguardo a un punto decisivo. La censura investe quanto argomentato dalla corte distrettuale con riferimento alle diverse inadempienze che i ricorrenti avevano ritenuto potessero giustificare il loro recesso. Il motivo va disatteso. La sentenza della corte di merito, come si è detto, ha escluso, nella loro massima parte, gli inadempimenti lamentati dagli odierni ricorrenti, evidenziando che quelli ravvisati erano del tutto trascurabili. Peraltro, lo stresso giudice dell’impugnazione ha evidenziato che per uno dei quattro inconvenienti riscontrati lett. E la promittente venditrice si era detta disponibile a una riduzione di prezzo e che altro lett. G non era nemmeno imputabile all’odierna controricorrente. Ciò posto, i ricorrenti investono questa Corte del riesame degli accertamenti in fatto svolti dal giudice dell’impugnazione, mentre compete ad essa la sola facoltà di controllo, sotto il profilo della correttezza giuridica e della coerenza logico formale, delle argomentazioni svolte dal giudice del merito. D’altro canto, ai fini del sindacato di cui all’art. 360, n. 5 c.p.c., costituisce fatto decisivo per il giudizio quello la cui differente considerazione è idonea a comportare, con certezza, una decisione diversa Cass. 31 luglio 2013, n. 18368 . Per potersi configurare il vizio di motivazione su un asserito punto decisivo della controversia, è necessario, dunque, un rapporto di causalità fra la circostanza che si assume trascurata e la soluzione giuridica data alla controversia, tale da far ritenere che quella circostanza, se fosse stata considerata, avrebbe portato ad una diversa soluzione della vertenza ex plurimis Cass. 24 ottobre 2013, n. 24092 Cass. 12 luglio 2007, n. 15604 Cass. 21 aprile 2006, n. 9368 . L’analitica motivazione spesa dalla corte di merito con riferimento alle singole inadempienze lamentate dai ricorrenti appare congrua ed esauriente, né evidenzia l’omesso esame di risultanze processuali tale da invalidare, con un giudizio di certezza, e non di mera probabilità, l’efficacia delle altre emergenze sulle quali il convincimento è fondato, così da privare di base la ratio decidendi della pronuncia. Si osserva, oltretutto, che con riferimento a un certo numero di vizi la corte distrettuale ha evidenziato che essi non figuravano nella comunicazione di recesso e si è detto che la censura sollevata dai ricorrenti col terzo motivo di ricorso che è diretta a colpire il fondamento della distinzione tra inadempienze indicate e, rispettivamente, taciute nell’atto di recesso , risulta essere inammissibile. Col quinto motivo, infine, è lamentata l’insufficiente e contraddittoria motivazione in ordine alla mancata ammissione della prova testimoniale. La decisione assunta al riguardo dalla corte di merito non risultava, secondo gli odierni istanti, giustificata adeguatamente in relazione alle motivazioni addotte e l’esperimento della stessa avrebbe potuto incidere significativamente sulla decisione da adottare nel merito. Anche tale motivo è infondato. Parte ricorrente lamenta il vizio motivazionale con riguardo alla pronuncia reiettiva della istanza di prova testimoniale, ma la sentenza, sul punto, è puntualmente argomentata, avendo essa sottolineato come la detta prova vertesse su giudizi o su fatti genericamente dedotti. Le doglianze sollevate dai ricorrenti sfuggono, d’altro canto, al sindacato della Corte. Si ricorda che il giudizio circa la superfluità e genericità della prova testimoniale è insindacabile in cassazione, involgendo una valutazione di fatto che può essere censurata soltanto se basata su erronei principi giuridici, ovvero su incongruenze di ordine logico Cass. 10 settembre 2004, n. 18222 cfr. pure Cass. 16 novembre 1971, n. 3284 Cass. 17 settembre 1970, n. 1517 Cass. 21 febbraio 1966, n. 531 . Inoltre, il giudice non può dare ingresso a deposizioni che implichino la formulazione di meri giudizi, dovendo anzi sempre rilevare, d’ufficio, l’inammissibilità della prova che verta su apprezzamenti e valutazioni del teste piuttosto che su fatti specifici a conoscenza dello stesso Cass. 2 ottobre 1996, n. 8620 . In conclusione, il ricorso è respinto. Le spese del giudizio di legittimità vanno riversate sui ricorrenti. P.Q.M. La Corte rigetta il ricorso condanna parte ricorrente al pagamento delle spese processuali, liquidate in Euro 4.200,00, di cui Euro 200,00 per esborsi.