Assicurazione a favore del terzo e decorso del termine di prescrizione dell’indennizzo

Il beneficiario di un contratto di assicurazioni, qualora chieda il pagamento dell’indennizzo, deve provare il fatto costitutivo della domanda e tale onere sussiste anche in relazione a quanto previsto nella clausola limitativa del rischio assicurato.

La Terza Sezione Civile della Cassazione, con la sentenza n. 24617 depositata il 3 dicembre 2015, ha escluso la responsabilità di un avvocato, accusato” di aver lasciato decorrere il termine di prescrizione inerente un indennizzo assicurativo. Il caso. La vicenda tra origine da un fatto drammatico la morte di un ragazzo a seguito di una violenta aggressione. Il giovane deceduto aveva stipulato una polizza assicurativa, per cui la madre aveva agito contro la compagnia per ottenere l’indennizzo, ma la sua richiesta veniva rigettata in primo grado , perché prescritta. Dalla sentenza della Cassazione in esame è possibile dedurre che per una scelta della madre del ragazzo deceduto, e contro il parere dell’avvocato, non era stato proposto appello. In questo quadro, la signora aveva poi citato in giudizio l’avvocato, per sentirlo condannare al risarcimento dei danni subiti, a titolo di responsabilità professionale, per avere il predetto legale fatto prescrivere il suo diritto all’indennizzo, quale beneficiaria della polizza assicurativa stipulata dal figlio. Sia in primo, sia in secondo grado, la domanda risarcitoria proposta contro l’avvocato veniva rigettata. Seguiva il ricorso per cassazione. La clausola contrattuale rilevante e l’accertamento dei fatti in sede penale. La polizza precisava L’assicurazione vale per gli infortuni subiti dall’Assicurato e contemplati dalla polizza. Sono inoltre compresi in garanzia, se fortuiti, connessi e compatibili con l’oggetto dell’assicurazione gli infortuni derivanti da aggressioni, tumulti popolari, o da atti di terrorismo, a condizione che l’Assicurato non vi abbia preso parte volontariamente . Quest’ultima parte della clausola sarà considerata molto importante ai fini della decisione della causa, perché l’accertamento, avvenuto in sede penale, circa lo svolgimento dei fatti, era decisivo al fine di escludere, oppure no, una compartecipazione volontaria dell’assicurato, rilevante ai sensi della clausola appena menzionata. Importante, quindi, al fine dell’individuazione del momento dal quale il termine di prescrizione aveva iniziato a decorrere quanto alla richiesta di indennizzo . La tesi della ricorrente il decorso immediato della prescrizione. Il contratto di assicurazione infortuni, comprensivo del rischio infortuni mortali”, andrebbe equiparato, quanto a funzione e disciplina, al contratto di assicurazione sulla vita a favore del terzo, con conseguente applicabilità dell’art. 1920, comma 3, c.c., per cui il diritto del beneficiario, pur trovando la sua fonte direttamente nel contratto di cui egli non è stato parte, rappresenterebbe un diritto proprio” del beneficiario. Di conseguenza, vi sarebbe un collegamento automatico tra il verificarsi dell’evento coperto dall’assicurazione – la morte, in questo caso – e l’esercizio del diritto del beneficiario, diritto che si prescrive in un anno dal giorno in cui si è verificato l’evento su cui esso si fonda. In definitiva, avrebbe errato la Corte d’appello nel sostenere che l’infortunio riportato dall’assicurato, per poter essere configurato come tale, esigeva l’accertamento giudiziale di ogni assenza di partecipazione volontaria all’evento. E solo da quel momento la beneficiaria avrebbe potuto convenientemente esercitare il relativo diritto di indennizzo. Altra censura l’accertamento in ambito penale non inciderebbe sul decorso della prescrizione. Secondo la ricorrente, inoltre, la pendenza di un procedimento penale sui fatti che integrano gli estremi dell’evento assicurato o su fatti che porterebbero ad escludere la sussistenza del sinistro o la sua indennizzabilità, non avrebbe di per sé alcuna incidenza sul decorso del termine di prescrizione del diritto all’indennizzo. Per la Suprema .Corte è invece decisiva la portata della clausola contrattuale. Gli Ermellini, nel rigettare le censure della ricorrente, ricordano il tenore della clausola contrattuale di cui sopra, alla luce della quale, ai fini di determinare la decorrenza del termine di prescrizione del diritto all’indennizzo, risulta imprescindibile l’accertamento di fatto della non volontaria partecipazione dell’assicurato all’aggressione da cui è derivata la morte del medesimo, accertamento derivato, nella specie, dalla sentenza del Gup. Nel contratto di assicurazione contro gli infortuni a favore del terzo, il carattere autonomo del diritto acquistato dal beneficiario, ai sensi dell’art. 1920, comma 3, c.c., non implica che il medesimo diritto sia svincolato dalle clausole e dalle pattuizioni contemplate nel contratto, con la conseguenza che l’assicuratore, a norma dell’art. 1413 c.c., ben può opporre al beneficiario le eccezioni e le altre clausole limitative previste dal contratto. Chi chiede l’indennizzo devo provare la sussistenza dei presupposti anche contrattuali. Inoltre, il beneficiario di un contratto di assicurazioni, qualora chieda il pagamento dell’indennizzo, deve provare il fatto costitutivo della domanda e tale onere sussiste anche in relazione a quanto previsto nella clausola limitativa del rischio assicurato. In conclusione, non poteva dirsi maturata alcuna prescrizione, e quindi non poteva configurarsi alcuna ipotesi di responsabilità in capo all’avvocato, tenuto conto del momento in cui vi è stato l’accertamento, in sede penale, circa la mancanza di una volontaria partecipazione all’evento da parte dell’assicurato.

Corte di Cassazione, sez. III Civile, sentenza 18 settembre – 3 dicembre 2015, n. 24617 Presidente Chiarini – Relatore Scrima Fatto e diritto 1. Con l'ordinanza di cui in epigrafe il tribunale di Potenza, in funzione di tribunale dei riesame, adito ex art. 310, c.p.p., rigettava l'appello proposto nell'interesse di G.L. avverso l'ordinanza con cui il giudice per le indagini preliminari presso il tribunale di Potenza aveva rigettato l'istanza volta ad ottenere l'autorizzazione a svolgere attività lavorativa ex art. 284, co. 3, c.p.p., ritenendo, da un lato non provato lo stato di assoluta indigenza dei G., dall'altro che l'arco di tempo particolarmente prolungato in cui si sarebbe dovuta svolgere l'attività lavorativa appare 'del tutto incompatibile con le esigenze cautelari ed il pericolo di recidiva ravvisabile nei confronti dei G 2. Avverso tale ordinanza, di cui chiede l'annullamento, ha proposto tempestivo ricorso per cassazione il G., a mezzo dei suo difensore di fiducia, lamentando violazione di legge e vizio di motivazione in quanto, da un lato, l'assunto dei tribunale della libertà secondo cui il periodo di tempo eccessivamente lungo in cui si sarebbe dovutq svolgere l'attività lavorativa sarebbe tale da frustrare la ritenuta esigenza di tutela della collettività, è del tutto tautologico, non spiegando il tribunale perché l'attività lavorativa a quale il G. avrebbe dovuto dedicarsi sia incompatibile con le esigenze cautelari, esponendosi la motivazione dell'impugnata ordinanza al medesimo rilievo critico nella parte in cui il giudice dell'impugnazione cautelare deduce la mancata dimostrazione dello stato di indigenza dell'indagato dalla circostanza che l'indicatore economico di cui al certificato ISEE è di quasi 12.000,00 euro dall'altro il tribunale del riesame non ha fornito risposta al rilievo difensivo, formulato sia nei motivi di appello, che con l'istanza al giudice procedente, sull'insussistenza dell'esigenza cautelare di tutela della collettività, posta a fondamento della misura cautelare degli arresti domiciliari attualmente in esecuzione, il cui mantenimento, peraltro, non si giustifica, alla luce della previsione dell'art. 275, co. 2 bis, c.p.p., come modificato dal d.l. n. 92 del 2014, convertito nella I. n. 317 del 2014, essendo stato il G. condannato ad una pena inferiore ai tre anni di reclusione. 3 II ricorso è fondato nei termini che seguono. Ed invero non può non rilevarsi come l'ordinanza del tribunale del riesame sia caratterizzata da una carenza motivazionale che non consente di cogliere la congruità delle argomentazioni rispetto al fine giustificativo dei provvedimento. Come affermato da un condivisibile orientamento della giurisprudenza di legittimità, infatti, in tema di autorizzazione dell'imputato sottoposto agli arresti domiciliari ad assentarsi per svolgere un'attività lavorativa, la valutazione dei giudice in ordine alla situazione di assoluta indigenza dello stesso, pur dovendo essere improntata, stante l'eccezionalità della previsione, a criteri di particolare rigore, non può, però, spingersi sino al punto di pretendere una sorta di prova legale dello stato di assoluta indigenza del nucleo familiare dell'indagato mediante produzione di una autocertificazione attestante la impossidenza dei redditi necessari a soddisfare le ordinarie esigenze di vita cfr. Cass., sez. II, 12.2.2015, n. 12618, rv. 262775 . La condizione di assoluta indigenza dell'imputato, cui la legge subordina l'autorizzazione ad allontanarsi dal luogo di arresto per esercitare un'attività lavorativa, deve essere riferita ai bisogni primari dell'individuo e dei familiari a suo carico, ai quali può essere data risposta solo attraverso il lavoro, che assume, dunque, nella prospettiva indicata dall'art. 284, co. 3, c.p.p., un ruolo centrale nell'assicurare i suddetti bisogni primari, nozione che peraltro comprende anche per l'evolversi delle condizioni sociali le spese per l'educazione, quelle per la comunicazione o per il mantenimento in salute cfr. Cass., sez. IV, 29.1.2007, n. 10980, rv. 236194 . Proprio in applicazione di tali principi in un condivisibile arresto della Suprema Corte, si è affermato che l'assoluta indigenza non deve essere intesa in senso esclusivamente pauperistico , dovendo farsi riferimento alle condizioni reddituali e patrimoniali del soggetto, eventualmente comprensive delle utilità economiche costituenti anche esse reddito personale, che siano corrisposte dalle persone obbligate per legge o per rapporti contrattuali al suo mantenimento per motivi che prescindano dalla capacità al lavoro, dovendosi escludere che a tali fini possa rilevare la situazione economica del nucleo familiare, in quanto non è presa in considerazione dalla legge, né sussiste alcun obbligo di mantenimento del sottoposto agli arresti domiciliari a carico dei componenti la famiglia, al di fuori di quello strettamente alimentare cfr. Cass., sez. VI, 3.6.2005, n. 32574, rv. 231869 . Evidente, dunque, che il mero riferimento all'indicatore economico desumibile dal certificato ISEE di quasi 12.000 euro , derivante dal reddito prodotto dalla moglie dell'imputato, non costituisce motivazione adeguata per escludere lo stato di indigenza dei G Allo stesso modo appare del tutto apodittica l'affermazione dei tribunale del riesame, laddove afferma, senza spiegarne le ragioni, che l'orario in cui si sarebbe dovuta svolgere l'attività lavorativa dalle ore 6.30 alle ore 16.30 sia del tutto incompatibile con le esigenze cautelari ed il pericolo di recidiva ravvisabile nei confronti dei G. . Proprio quest'ultimo passaggio della motivazione dei tribunale del riesame non consente di accogliere l'ulteriore rilievo difensivo in tema di esigenze cautelari. Appare, infatti, evidente che il tribunale del riesame ha ritenuto sussistente un concreto ed attuale pericolo di reiterazione criminosa rafforzato dalla intervenuta condanna dell'imputato alla pena di anni due mesi otto di reclusione ed euro 10.000,00 di multa , correttamente desumendolo dalla gravità dei fatti per cui si procede nei confronti dei G. lesioni personali volontarie commesse con l'uso di un'arma e con premeditazione detenzione e porto illegali di un'arma da fuoco e di strumenti atti ad offendere e dalla negativa personalità dello stesso, gravato da vari precedenti penali per reati in materia di armi e di stupefacenti cfr. p. 2 del provvedimento impugnato . Né può essere invocata l'applicazione dell'art. 275, co. 2 bis, come sostituito dall'art. 8 , d.i. 26 giugno 2014, n. 92, convertito, con modificazioni, nella I. 11 agosto 2014, n. 117, in quanto tale disposizione fa riferimento solo alla misura cautelare della custodia in carcere, disponendo che non può essere applicata nei confronti di chi si presume non possa essere condannato ad una pena detentiva superiore ai tre anni, e non anche agli arresti domiciliari. 4. Sulla base delle svolte considerazioni l'impugnata ordinanza va, dunque, annullata con rinvio per nuovo esame al tribunale del riesame di Potenza, che provvederà a colmare le evidenziate lacune motivazionali, uniformandosi ai principi di diritto innanzi indicati. P.Q.M. Annulla il provvedimento impugnato con rinvio per nuovo esame al tribunale di Potenza.