Il contratto definitivo può non riprodurre in toto la volontà delle parti

Il principio dell’assorbimento del contratto preliminare nel definitivo non esime il giudice da una indagine approfondita della effettiva volontà delle parti nella sequenza preliminare-definitivo.

Lo ha stabilito la Corte di Cassazione nella sentenza n. 22984, depositata il 29 ottobre 2014. Il fatto. Con scrittura privata l’attore aveva promesso di acquistare dai convenuti, che avevano promesso di vendere le quote pari all’intero ammontare del capitale della loro società con una clausola di tale contratto preliminare avevano stabilito che il pagamento dell’INVIM imposta sull’incremento di valore degli immobili decennale gravante sull’immobile di proprietà della società fosse a carico dei venditori. Pertanto, l’attore convenne in giudizio i venditori per sentirli condannare al pagamento della somma relativa all’immobile, domanda che veniva accolta dal Tribunale di Rimini. La Corte d’appello di Bologna, sul gravame proposto dai soccombenti, aveva deciso per la riforma della sentenza di primo grado, osservando che la clausola contenuta nel preliminare, non essendo stata riprodotta nei contratti definitivi di cessione delle quote, doveva intendersi essere stata rinunziata dalle parti. Avverso tale sentenza ha proposto ricorso per cassazione l’acquirente delle quote della società. È intervenuta sulla questione la Corte di Cassazione, ritenendo fondate le doglianze proposte dal ricorrente. L’onere del giudice di indagare sulla concreta volontà delle parti. Vero è, afferma la Corte, che, secondo il principio dell’assorbimento, una volta concluso il contratto definitivo è in esso da ravvisare l’unica fonte dei diritti ed obbligazioni delle parti, sì che le clausole del preliminare ivi non riprodotte si presumono non conformi alla volontà delle parti diretta alla disciplina del negozio concluso. Tale riferimento alla presunzione implica, però, il dovere del giudice di verificare, indagando quale sia stata la comune intenzione delle parti nella conclusione del contratto definitivo, se quella presunzione possa nella specie ritenersi vinta da elementi di segno opposto, offerti dalle parti o desumibili dagli atti nel caso di specie, rileva una lettera raccomandata inviata dai venditori, in atti . La clausola riferita all’accollo del debito tributario non vuole la forma scritta. Al riguardo, osserva il Collegio, la legge non richiede per il negozio in questione la forma scritta nel rapporto fra le parti, l’atto scritto con sottoscrizione autentica è infatti richiesto dall’art. 2479 c.c. nel testo ante riforma applicabile al caso in esame, in parte trasfuso nel vigente art. 2470 c.c. solo per l’opponibilità alla società del trasferimento della titolarità delle quote. Sì che, è necessario esaminare il concreto contenuto del negozio concluso, anche al fine di verificare se con esso le parti si siano, o non, limitate a formalizzare” tale cessione nei confronti della società, senza riprodurre tutti gli impegni negoziali da essi reciprocamente assunti. La S.C. ha pertanto cassato la sentenza impugnata, con il rinvio della causa alla Corte d’appello di Bologna perché proceda ad un nuovo esame.

Corte di Cassazione, sez. I Civile, sentenza 18 settembre – 29 ottobre 2014, n. 22984 Presidente Ceccherini – Relatore Scaldaferri Svolgimento del processo A.L. convenne in giudizio D.P.S. e V.F. per sentirli condannare al pagamento della somma di Euro 20.715,09 oltre interessi, deducendo che, con scrittura privata del 28.6.1989, aveva promesso di acquistare per sé o altri da nominare al definitivo dai convenuti, che avevano promesso di vendere, le quote pari all'intero capitale della Visa s.r.l. che con la clausola d di tale contratto preliminare si era stabilito che il pagamento dell'INVIM decennale gravante sull'immobile di proprietà della Visa s.r.l. fosse a carico dei venditori che, trasferite le quote in proprietà dei soggetti indicati da esso attore A.M. , A.S. , An.Lu. e G.G. , l'Ufficio del Registro aveva notificato avviso di accertamento del valore finale dell'immobile della Visa s.r.l., la quale aveva definito la controversia tributaria con il pagamento della somma di L. 40.100.000 pari a Euro 20.715,09 che, conformemente all'impegno assunto, era a carico dei convenuti. Questi ultimi chiesero il rigetto della domanda, rilevando, gradatamente, la carenza di legittimazione attiva in capo all'attore, la mancata riproduzione della clausola in questione nei contratti definitivi del 29 e 31 luglio 1989, la mala gestio della controversia tributaria da parte della società. Il Tribunale di Rimini, espletata istruttoria, accolse la domanda. Su gravame del D. e della V. , cui resisteva l'A. , la Corte d'appello di Bologna, in riforma della sentenza di primo grado, ha rigettato la domanda proposta dall'appellato osservando, per quanto qui ancora rileva, che la clausola d contenuta nel preliminare, non essendo stata riprodotta nei contratti definitivi di cessione delle quote, deve intendersi essere stata rinunziata dalle parti, giacché il preliminare di compravendita esaurisce la sua funzione allorché viene sostituito dal contratto definitivo e da questo è destinato ad essere assorbito ai fini della disciplina del negozio posto in essere. Avverso tale sentenza l'A. ha proposto ricorso per cassazione, affidato a due motivi. Gli intimati non hanno svolto difese. Motivi della decisione 1. Con il primo motivo di ricorso si denuncia la violazione e falsa applicazione dell'art. 1372 cod.civ., osservando come il fatto che le scritture del 29 e 31 luglio 1989, dirette a formalizzare nei confronti della Visa s.r.l. la sola cessione delle quote, non riproducessero la clausola in questione non può per ciò solo condurre a ritenere che le parti abbiano inteso rinunciare al patto accollo del debito tributario in essa contenuto, stante la sua autonomia rispetto al diverso impegno di cessione delle quote. Con il secondo motivo si denuncia la violazione e falsa applicazione dell'art. 1362 cod.civ., evidenziando come il riferimento al principio dell'assorbimento del preliminare nel definitivo non possa esimere il giudice da una indagine approfondita della effettiva volontà delle parti nella sequenza preliminare-definitivo in esame, da condurre alla stregua della norma di legge indicata, e quindi anche sulla base della valutazione del loro comportamento complessivo, anche posteriore alla formazione del contratto indagine che, nella specie, avrebbe dovuto tener conto di una lettera raccomandata inviata dai venditori, in atti. 2. Tali doglianze, esaminabili congiuntamente stante la stretta connessione, sono fondate. Non è sufficiente a dirimere secondo legge la controversia in esame il solo riferimento al c.d. principio dell'assorbimento, effettivamente ripetutamente affermato nelle pronunce di questa Corte, peraltro con riguardo a controversie aventi ad oggetto compravendite immobiliari per le quali la legge prescrive la forma scritta ad substantiam . Secondo tale principio, una volta concluso il contratto definitivo è in esso da ravvisare l'unica fonte dei diritti ed obbligazioni delle parti, sì che le clausole del preliminare ivi non riprodotte si presumono non conformi alla volontà delle parti diretta alla disciplina del negozio concluso cfr. ex multis Cass. Sez. 2 n. 9063/12 n. 233/07 n. 5283/83 n. 5255/80 . Ma tale riferimento alla presunzione implica il dovere del giudice di verificare, indagando quale sia stata la comune intenzione delle parti nella conclusione del contratto definitivo alla stregua dei principi stabiliti a tal fine dagli artt. 1362 e ss. cod.civ., se quella presunzione possa nella specie ritenersi vinta da elementi di segno opposto, offerti dalle parti o desumibili dagli atti. Al riguardo, va peraltro tenuto presente che la legge non richiede per il negozio in questione la forma scritta - né ai fini della validità ed efficacia, né ai fini della prova - nel rapporto tra le parti l'atto scritto con sottoscrizione autenticata è infatti richiesto dall'art. 2479 cod.civ. nel testo ante riforma qui applicabile, in parte trasfuso nel vigente art. 2470 cod.civ. solo per l'opponibilità alla società del trasferimento della titolarità delle quote cfr. Cass. Sez. 1 n. 23203/13 Sez. 2 n. 25468/12 . Sì che, anche sotto questo profilo, l'indagine sulla disciplina che le parti abbiano effettivamente inteso dare al negozio da esse concluso non può fermarsi alla constatazione del fatto pacifico che gli atti di trasferimento depositati per l'iscrizione non contengano la clausola in questione occorre invece l'esame del concreto contenuto di tali scritture, anche al fine di verificare se con esse le parti si siano, o non, limitate - come rilevato dal ricorrente - a formalizzare tale cessione nei confronti della società, senza riprodurre tutti gli impegni negoziali da esse reciprocamente assunti. 3. Si impone dunque la cassazione della sentenza impugnata, con il rinvio della causa alla Corte d'appello di Bologna perché proceda ad un nuovo esame alla luce dei principi sopra esposti, regolando anche le spese di questo giudizio di legittimità. P.Q.M. La Corte accoglie il ricorso, cassa la sentenza impugnata e rinvia la causa, anche per il regolamento delle spese di questo giudizio di legittimità, alla Corte d'appello di Bologna in diversa composizione.