Clausola del prezzo chiuso: vale la disciplina applicabile ratione temporis

La disciplina contenuta nella legge 28 febbraio 1986, abrogata dalla legge 498/1992, reca una disciplina differente rispetto a quella successivamente introdotta dalla legge 109/1994, con la conseguenza che non possono ritenersi valide la pattuizioni riconducibili alla prima normativa citata.

Mentre infatti la normativa del 1986 prevedeva la facoltà di stabilire il prezzo chiuso, consistente nel prezzo del lavoro al netto del ribasso di asta, aumentato del 5% per ogni anno intero necessario all’ultimazione di lavori, la legge del 1994 prevede il prezzo chiuso consistente nel prezzo dei lavori al netto del ribasso d’asta, aumentato di una percentuale da applicarsi, nel caso in cui la differenza tra inflazione reale e programmata fosse superiore al 2%, all’importo del lavori ancora da eseguire per ogni anno intero previsto per l’ultimazione dei lavori stessi. Ad affermarlo è la Corte di Cassazione, nella sentenza n. 17464 del 17 luglio 2013. Appalto pubblico e disciplina del prezzo chiuso. Con la pronuncia che si commenta le Sezioni Unite della Corte di Cassazione intervengono su una interessante questione in tema di appalti pubblici. La Corte analizza la questione della validità della clausola contrattuale di determinazione della maggiorazione del prezzo in caso di prosecuzione dei lavori oltre il termine prefissato, che nel caso in esame prevedeva una maggiorazione del 5% annuo. Il prezzo chiuso e le sopravvenienze normative. La Corte chiarisce che il cd. prezzo chiuso, previsto dall’art. 26, l. 109/1994 ha una disciplina differente rispetto a quella concordata dalla parti nel caso di specie. Mentre infatti la legge 28 febbraio 1986, abrogata dalla legge 498/1992, prevedeva la facoltà di stabilire il prezzo chiuso, consistente nel prezzo del lavoro al netto del ribasso di asta, aumentato del 5% per ogni anno previsto per l’ultimazione di lavori, l’art. 26 richiamato prevedeva il prezzo chiuso consistente nel prezzo dei lavori al netto del ribasso d’asta, aumentato di una percentuale da applicarsi, nel caso in cui la differenza tra inflazione reale e programmata fosse superiore al 2%, all’importo del lavori ancora da eseguire. La Corte rileva quindi la differenza sostanziale tra le due norme e chiarisce che la clausola prevista nel contratto di appalto stipulato nel 1998 e portata alla sua attenzione fosse da ricondurre alla previsione normativa del 1986 abrogata dalla normativa del 1992. Fatte tali differenziazioni e così qualificata la clausola del contratto la Corte conferma la statuizione del giudice di appello che aveva giudicato nulla la clausola per contrarietà alla norma imperativa, non potendosi ricondurre la pattuizione delle parti alla differente disciplina contenuta nella legge del 1994 e non potendosi richiamare, in virtù della normativa applicabile ratione temporis , la successiva legislazione del 2006. Il giudizio di validità della clausola contrattuale. La Corte, dopo aver così qualificato la clausola di maggiorazione del prezzo, chiarisce altresì che il disaccordo delle parti in merito alla portata della clausola contrattuale non afferisce all’interpretazione della clausola stessa ma ai motivi che hanno indotto le parti a pattuire un dato assetto di interessi, nella specie riguardanti la determinazione del prezzo. La Corte rileva tuttavia che pur dovendosi così qualificare tale doglianza, la stessa non assume rilevanza al fine di valutare la legittimità della clausola stessa alla luce del quadro normativo vigente al momento della conclusione del contratto visto che la normativa applicabile costituisce norma imperativa.

Corte di Cassazione, sez. I Civile, sentenza 8 marzo - 17 luglio 2013, n. 17464 Presidente Vitrone – Relatore Ceccherini Svolgimento del processo 1. La controversia ha origine dall'esecuzione di un contratto di appalto stipulato il 22 settembre 1998 dal committente Comune di San Giorgio La Molara per la costruzione dell'impianto locale di depurazione, con l'impresa appaltatrice s.a.s. Ing. A. C. & amp C. Nel corso del rapporto l'impresa formulò undici riserve, che furono respinte dal comune. Le parti instaurarono quindi il procedimento arbitrale previsto dall'articolo 37 del capitolato speciale. Il collegio arbitrale accolse in parte le richieste dell'impresa, e condannò il comune al pagamento delle somme liquidate, con gli accessori. 2. Con sentenza 17 luglio 2009, la Corte d'appello di Napoli, davanti alla quale il comune aveva impugnato il lodo arbitrale, accolse in parte l'impugnazione e annullò il lodo, per quel che qui interessa, nella parte in cui aveva accolto la domanda di maggiorazione del 15 % dell'importo netto dei lavori, che si erano protratti per tre anni dopo la data prevista in contratto per l'ultimazione dei lavori. In sede rescissoria la corte giudicò che la clausola, da ritenersi per la sua formulazione letterale e per le sue finalità nata in simbiosi con la previsione normativa di rango primario abilitativa della clausola medesima, non avesse alcuna autonomia rispetto alla disciplina normativa, e non potesse dunque valere per il suo contenuto, di richiamo di una norma già abrogata. 3. Per la cassazione di questa sentenza, non notificata, ha proposto ricorso la società con atto notificato il 24 febbraio 2010 presso la sede dell'ente, che nel giudizio davanti alla corte d'appello era elettivamente domiciliato presso l'avv. Angelo Rosito in Napoli. Il comune non ha svolto difese. Con ordinanza collegiale, depositata 14 maggio 2012, la corte ha disposto la rinnovazione della notificazione del ricorso alla controparte, presso il procuratore costituito nel giudizio davanti alla Corte d'appello di Napoli. All'esito di tale adempimento la causa torna all'esame del collegio. Motivi della decisione 4. Con il ricorso si censura l'annullamento del lodo arbitrale nel capo che aveva accolto la richiesta dell'impresa, di applicazione della maggiorazione dell'importo netto dei lavori, per tre anni di prolungamento dei lavori, in conformità della clausola n. 8 del capitolato speciale d'appalto. 5. Il primo motivo denuncia la violazione degli artt. 1321, 1322 primo comma, 1372 primo comma, 1418 e 1419 c.c. e 26 comma quarto l. n. 109 del 1994, 133 comma terzo d.lgs. n. 163 del 2006. Si deduce che erroneamente la corte territoriale ha supposto il rinvio a una norma abrogata, laddove la clausola del prezzo chiuso , pur contemplata in una disposizione abrogata dall'articolo 15 della legge n. 498 del 1992, era stata reintrodotta dall'articolo 26 comma quarto della legge n. 109 del 1994, e confermata dall'articolo 133 comma terzo del d.lgs. n. 163 del 2006. Si sostiene inoltre che, pur in assenza di norma autorizzativa, la clausola non poteva essere dichiarata nulla se non per contrasto con una norma imperativa o con i principi generali dell'ordinamento. 6. Questo motivo è infondato. Il prezzo chiuso di cui all'articolo 26 comma 4 l. 109/1994 ha una disciplina assai diversa, rispetto a quella richiamata dalle parti del contratto d'appalto in questione. Va ricordato, infatti, che il quarto comma dell'articolo 33 della legge 28 febbraio 1986 prevedeva la facoltà di stabilire il prezzo chiuso, consistente nel prezzo del lavoro al netto del ribasso di asta, aumentato del 5 per cento per ogni anno intero previsto per l'ultimazione dei lavori. Diversamente, l'articolo 26 della legge 11 febbraio 1994 n. 109 prevedeva il prezzo chiuso, consistente nel prezzo dei lavori al netto del ribasso d'asta, aumentato di una percentuale da applicarsi, nel caso in cui la differenza tra il tasso d'inflazione reale e il tasso d'inflazione programmato nell'anno precedente sia superiore al 2 per cento, all'importo dei lavori ancora da eseguire per ogni anno intero previsto per l'ultimazione dei lavori stessi. La differenza esistente tra le due norme, che sono tra loro incompatibili, non consente di accedere alla tesi difensiva per la quale la clausola contrattuale, che nel 1998 determinava il prezzo chiuso in conformità della normativa del 1992, già abrogata, sarebbe valida in forza della diversa disciplina entrata in vigore nel 1994. Non ha poi valore il richiamo della legislazione del 2006, dovendo la validità della clausola essere accertata con riferimento al momento in cui fu pattuita, e in cui per la legislazione vigente ratione temporis era nulla, non potendosi configurare una sanatoria postuma di una clausola contrattuale nulla per violazione di norme imperative. A questo riguardo, infatti, le norme dell'articolo 33 della legge n. 41/1986, applicabili in forza del secondo comma anche agli enti locali, erano certamente imperative, e la clausola del cosiddetto prezzo chiuso sarebbe stata legittima solo se stipulata in osservanza della previsione contenuta nell'articolo 26 della legge n. 109 del 1994. 7. Con il secondo motivo si denuncia la violazione degli artt. 829, e conseguentemente dell'articolo 830 cpv. c.p.c., e degli artt. 1418 e 1419 c.c. La corte del merito, dopo aver correttamente premesso l'inammissibilità del motivo d'impugnazione del comune nella parte in cui supponeva un'interpretazione di una clausola contrattuale in senso difforme da quello accolto dagli arbitri, e aver riconosciuto l'ammissibilità del motivo laddove deduceva una violazione di legge, invece di valutare la statuizione arbitrale con riferimento alle norme ipoteticamente violate, sarebbe passata direttamente al giudizio rescissorio - ciò che supponeva l'annullamento del lodo, ed è pervenuta a un'interpretazione della clausola contrattuale, in forza della quale, soltanto, è stata ritenuta la violazione di una norma imperativa, e quindi la stessa rescindibilità del lodo. 8. Il motivo - inammissibile per la parte in cui si basa sul contenuto, variamente interpretato, di una clausola, non riprodotta nel ricorso se non parzialmente nel terzo motivo, di un contratto non depositato ex 369 c.p.c. - è infondato nella parte in cui denuncia una violazione dell'articolo 829 c.p.c., essendo la statuizione impugnata conforme a diritto, sebbene la motivazione dell'impugnata sentenza debba essere parzialmente corretta. 9. La questione, infatti non è correttamente prospettata. Occorre premettere che nella fattispecie non vi era - per quel che in questa sede rileva - alcuna contestazione sul contenuto del contratto, e non era in discussione la sua interpretazione quanto alle obbligazioni reciproche delle parti né, specificamente, quanto all'obbligazione del committente derivante dall'articolo 8 del capitolato speciale d'appalto di pagamento della maggiorazione del 15 per cento 5 per cento per ogni anno di ritardo dell'importo netto dei lavori, che si erano protratti per tre anni dopo la data prevista in contratto per l'ultimazione dei lavori. Il dibattito processuale, già nei gradi di merito e poi in questa sede di legittimità, si è focalizzato sull'intento perseguito dalle parti con la predetta clausola contrattuale se di formazione di un autonomo regolamento contrattuale, o invece di richiamo di una norma di legge. In questi termini, tuttavia, la controversia verte non già sull'interpretazione della volontà negoziale, bensì sui motivi che avrebbero indotto le parti a pattuire una clausola di prezzo chiuso , sul cui contenuto non sussiste alcuna incertezza interpretativa. La ricorrente sostiene, infatti, che le parti avrebbero pattuito la clausola del prezzo chiuso non già perché prevista da una norma supposta vigente, bensì perché corrispondente all'assetto dei loro interessi. Ora, tale questione, siccome attinente ai motivi che determinarono le parti nella formazione della comune volontà sul punto, è del tutto irrilevante nella valutazione della legittimità della clausola medesima, nel quadro normativo del tempo della conclusione del contratto. Trattandosi di una disciplina legale imperativa per l'ente locale, correttamente il giudice dell'impugnazione del lodo ha al tempo stesso negato l'ammissibilità della questione d'interpretazione del contratto non importa se sotto un profilo diverso da questo qui considerato , e ha poi accertato la nullità della clausola perché in violazione di norme imperative. Il relativo giudizio apparteneva, infatti, interamente alla fase rescindente, indipendentemente dalla qualificazione datane dal giudice dell'impugnazione del lodo. D'altra parte, la natura demolitoria della pronuncia di nullità per violazione di legge non lasciava spazio, per questa parte, a una decisione di merito in sede rescissoria, che non fosse di rigetto della domanda per quella parte, sicché sostanzialmente corretta era altresì la pronuncia di rigetto. 10. Il terzo motivo deduce la violazione degli artt. 1362 primo e secondo comma, 1363, 1367, 1418, 1419, 1421,. 1427 c.c Il rinvio a una norma abrogata paleserebbe l'intento delle parti di voler inserire proprio tale disposizione nella disciplina dei propri rapporti negoziali. 11. Il motivo è assorbito dal rigetto dei motivi precedenti, stante la natura imperativa della normativa vigente, che confliggeva con il risultato al quale tendevano le parti, e l'irrilevanza dello schema giuridico richiamo di norme applicabili o manifestazione di volontà del loro contenuto attraverso il quale il risultato medesimo era perseguito. 12. In conclusione il ricorso è respinto. In mancanza di difese svolte dal Comune di San Giorgio La Molara non v'è luogo a pronuncia sulle spese. P.Q.M. La Corte rigetta il ricorso.