Il Comune è inerte? Giusto risolvere il contratto ... ma attenzione alle pretese fatte valere!

Il committente, dall’inizio del rapporto e per tutta la durata di questo, deve assicurare all’appaltatore la possibilità giuridica e concreta di eseguire il lavoro affidatogli d’altra parte, laddove l’appaltatore opti per la risoluzione del contratto, poi non può far valere pretese che si fondino sul presupposto di un contratto valido ed operante.

Lo ha chiarito la Corte di Cassazione con la sentenza n. 3830/13, depositata il 15 febbraio. Il caso. Il contratto di appalto intercorso tra il Comune di Calatafimi e un’impresa viene sciolto per inadempimento dell’ente committente, che viene altresì condannato al risarcimento del danno. In particolare, la Corte di Appello rileva che il Comune non aveva adottato le varianti necessarie a garantire la prosecuzione dei lavori, altrimenti inattuabili d’altra parte non viene riconosciuto all’appaltatore il diritto al pagamento e ai danni collegati all’esecuzione del contratto, ormai venuto meno. La questione è allora posta al vaglio della S.C L’appaltatore non poteva proseguire i lavori . Il Comune lamenta che i giudici di merito non avrebbero considerato che lo ius variandi è una facoltà e non un obbligo dell’appaltante, con la conseguenza che l’impresa non aveva alcun diritto ad ottenere le variazioni dell’appalto dalla sospensione dei lavori, inoltre, non poteva derivare automaticamente la risoluzione del contratto. A giudizio degli Ermellini, tuttavia, la sentenza impugnata ha correttamente accertato che, in base alla consulenza tecnica non contestata dall’ente pubblico, alla data di sospensione dei lavori, l’appaltatore non ne poteva eseguire altri, per diversi motivi ad esempio, la necessità di approvare una seconda perizia . . per inerzia dell’ente appaltante. A tal proposito, consolidata giurisprudenza ha affermato che il committente, dall’inizio del rapporto e per tutta la durata di questo, deve assicurare all’appaltatore la possibilità giuridica e concreta di eseguire il lavoro affidatogli nel caso di specie, invece, il contratto non ha più potuto avere esecuzione proprio perché l’amministrazione non ha adempiuto a tale obbligazione. L’opzione per la risoluzione del contratto. L’impresa, con ricorso incidentale, censura la sentenza della Corte territoriale per non aver considerato che con la prima citazione introduttiva del giudizio essa aveva richiesto il risarcimento del danno per le illegittime sospensioni dei lavori e per gli ulteriori inadempimenti dell’appaltante e soltanto con la seconda aveva domandato la risoluzione del contratto. Secondo la S.C. spetta all’appaltatore scegliere lo strumento patrimoniale più appropriato per conseguire la reintegrazione del proprio patrimonio una volta compiuta la scelta, nel caso di specie in senso favorevole alla risoluzione, non si possono cumulare i benefici che ne derivano con quelli conseguibili dalla situazione opposta, fondati sul presupposto del contratto ancora operante e in esecuzione. Non esaminabili le riserve che presuppongono un contratto operante. Insomma, una volta pronunciata la risoluzione, tutti gli effetti del contratto vengono meno e con essi tutti i diritti che ne sarebbero derivati e che si considerano come mai entrati nella sfera giuridica dei contraenti stessi venuto meno il rapporto negoziale, i giudici di merito non potevano più esaminare le riserve dell’impresa formulate nel corso della sua esecuzione, e neppure la loro fondatezza, dal momento che le stesse presupponevano un contratto di appalto valido ed operante. Per questo motivo, appare corretto l’operato della Corte territoriale, laddove ha concluso che non si poteva più discutere dei diritti ed obbligazioni nascenti dal contratto né dei crediti o debiti maturati. Per questi motivi la Cassazione rigetta entrambi i ricorsi compensando tra le parti le spese del giudizio.

Corte di Cassazione, sez. I Civile, sentenza 16 gennaio – 15 febbraio 2013, n. 3830 Presidente Vitrone – Relatore Salvago Svolgimento del processo La Corte di appello di Palermo, con sentenza non definitiva del 19 ottobre 2005 ha confermato la risoluzione pronunciata dal Tribunale di Trapani con decisione 17 luglio 2002, del contratto di appalto intercorso tra il comune di Calatafimi e l'impresa B.L. per inadempimento dell'amministrazione committente, che ha condannato al risarcimento del danno da liquidarsi nel prosieguo del giudizio, osservando a che, non avendo il comune adottato le varianti necessarie onde consentire la prosecuzione dei lavori, altrimenti inattuabili, e non potendo senza di esse portarsene a compimento alcuna tipologia, doveva ritenersi giustificata la sospensione da parte dell'impresa, nonché la risoluzione del contratto pronunciata dal primo giudice b che detta risoluzione attribuiva tuttavia all'appaltatore il diritto al risarcimento di tutti i danni subiti, ma non ad ottenere pagamenti e danni collegati all'esecuzione del contratto, ormai venuto meno. Per la cassazione della sentenza, l'amministrazione comunale ha proposto ricorso per due motivi cui resiste l'impresa B. con controricorso, con cui ha formulato ricorso incidentale affidato a tre motivi. Motivi della decisione Con il ricorso che si articola in due motivi, il comune di Calatafimi, deducendo violazione degli articolo 1453, 14 60, 1660 e 1661, censura la sentenza impugnata per avere confermato la declaratoria di risoluzione del contratto senza considerare a che lo ius variandi costituisce una facoltà e non un obbligo della stazione appaltante, con la conseguenza che l’impresa non aveva alcun diritto ad ottenere le variazioni dell’appalto e neppure poteva dichiararsi la risoluzione del contratto perché la committente aveva ritenuto di non avvalersi di detta facoltà b che dalla sospensione dei lavori non derivava affatto, con automatismo necessario, la risoluzione del contratto. I motivi sono infondati. La sentenza impugnata non ha dubitato affatto che lo jus variandi . nel corso dell'esecuzione di un contratto di appalto di o.p. costituisca fin dalla normativa contenuta nell'articolo 20 r.d. 350/1895 una facoltà della stazione appaltante, rimessa al suo insindacabile potere discrezionale, e peraltro subordinata alle condizioni ed autorizzazioni predisposte dalla menzionata legge né ha condannato il comune di Calatafimi ad eseguire i lavori che avrebbero dovuto costituire oggetto della nuova perizia di variante ove la stessa fosse stata approvata dall'amministrazione committente ma si è limitata ad esaminare le contrapposte domande di risoluzione del contratto per inadempimento della controparte, respingendo quella del comune e confermando la fondatezza di quella dell'impresa B. per avere accertato in base alle risultanze della consulenza tecnica non contestate dall'ente pubblico, che alla data della sospensione dei lavori 27 giugno 1995 l'appaltatore non ne poteva eseguire alcun altro perché talune tipologie avevano già superato l’importo previsto dalla prima perizia altre necessitavano l'approvazione di una seconda perizia, senza la quale non potevano essere correttamente realizzate e tutte richiedevano preventivamente l'esecuzione ed il completamento della cupola, in quello stato inattuabile. Ora, secondo l’orientamento giurisprudenziale tradizionale cfr., per tutte, la risalente, Cass. 491/1971 e consolidato, dal quale non vi è ragione di discostarsi, fra le obbligazioni che scaturiscono, come effetti naturali, dal contratto di appalto vi è quella del committente di assicurare all'appaltatore, fin dall'inizio del rapporto, e per tutta la durata di questo, la possibilità giuridica e concreta di eseguire il lavoro affidatogli. Sicché l'inadempienza di tale obbligo, cui non può non corrispondere il diritto dell'appaltatore alla relativa osservanza, è ben suscettibile di assumere valenza à sensi degli artt. 1453 e ss. cod. civ. Cass. 5112/1998 12235/2003 9795/2005 . E tanto si è verificato nella fattispecie in cui la sentenza impugnata ha accertato che il contratto non ha potuto più avere esecuzione proprio perché l'amministrazione committente è risultata inadempiente alla propria obbligazione di assicurare all'appaltatore la possibilità giuridica e concreta di realizzare e completare il lavoro affidatogli perciò correttamente escludendo l'ipotesi prevista dall'articolo 1672 cod. civ. ricorrente, invece, quando l'esecuzione dell'opera sia divenuta impossibile in conseguenza di una causa non imputabile ad alcuna delle parti. In tale prospettiva non era dunque necessario il ricorso all'istituto dell'articolo 1460 cod. civ. impropriamente utilizzato dalla Corte di appello per giustificare la sospensione dei lavori da parte dell'appaltatore, essendo decisivo - e nel contempo sufficiente - l'accertamento che gli stessi non potevano più essere portati a compimento per il ricordato inadempimento della stazione appaltante ed il riferimento alla norma suddetta ha inteso soltanto significare che pur se la prospettata sospensione dei lavori da parte dell'impresa avesse potuto configurare un inadempimento, la stessa restava comunque assorbita nell'inerzia del comune appellante che non aveva, da un lato provveduto all'approvazione della perizia indispensabile per garantire la prosecuzione dell'opera, e dall'altro affrontato le problematiche per la costruzione della cupola, questa rendendo comunque irrealizzabile pag. 11 - 12 sent. . L'impresa, con il ricorso incidentale che si articola in tre motivi, deducendo violazione degli articolo 1453 e 1458 cod. civ., 112 cod.proc.civ. censura la sentenza impugnata per non aver considerato che con la prima citazione introduttiva del giudizio essa aveva richiesto il risarcimento del danno per le illegittime sospensioni dei lavori, e per gli ulteriori inadempimenti della stazione appaltante mentre soltanto con la seconda aveva domandato la risoluzione del contratto per inadempimento della controparte. Insiste pertanto nel pagamento di tutte le riserve formulate già nel giudizio di merito, e rileva come il risarcimento del danno per l'illegittima sospensione dei lavori sia collegabile esclusivamente alle carenze progettuali che avevano reso non eseguibile o proseguibile l'esecuzione del contratto per cui doveva comunque esserle attribuito. Le censure sono del tutto infondate. Come infatti ha rilevato l'appaltatrice, la stessa con il primo giudizio ha chiesto il pagamento di ulteriori corrispettivi rispetto a quelli già percepiti per i lavori eseguiti, nonché il risarcimento del danno per l'illegittima sospensione del contratto perciò costituente la causa petendi di entrambe le pretese ancorate al negozio tuttora ritenuto valido e vincolante tra le parti. Con il secondo, invece, ne ha chiesto la risoluzione per inadempimento della stazione appaltante, con il risarcimento di tutti i danni sofferti la quale in base al 2 comma dell'articolo 1453 cod. civ. preclude la domanda di esecuzione e si fonda sulla situazione fattuale e giuridica opposta costituita non più dalla mancata esecuzione del negozio da considerarsi tamquam non esset , bensì sul comportamento illecito del committente che lo obbliga a risarcire all'appaltatore l'intero pregiudizio patrimoniale sofferto. Pertanto spetta a quest'ultima la scelta dello strumento patrimoniale più appropriato per conseguire la reintegrazione del proprio patrimonio leso dall'inadempimento della stazione appaltante ma una volta operata la relativa opzione, nel caso in senso favorevole alla risoluzione, peraltro interamente accolta dai giudici di merito, ciò che la norma non consente al contraente che l'ha ottenuta è di cumulare i benefici che ne derivano con quelli conseguibili dalla situazione opposta, del contratto ancora operante ed in esecuzione pagamento di ulteriori compensi, di poste e maggiorazioni stabilite in contratto, di danni per la loro mancata o tardiva esecuzione, sospensioni ecc. . Ha più volte osservato questa Corte al riguardo che il soggetto non può chiedere che vengano ripristinate le situazioni giuridiche, quali esistenti, prima del contratto che si chiede sia risolto e contemporaneamente sia posto nella situazione giuridica in cui verrebbe a trovarsi in conseguenza dell'adempimento o dell'esatto adempimento del contratto. E che tanto non è voluto neppure dall'articolo 1458 cod. civ., anche perché, ove così fosse la risoluzione contrattuale apporterebbe al soggetto che la chiede un duplice beneficio e cioè ottenere la restituzione di ciò che ha dato e ad un tempo l'utilità che il contratto se esattamente adempiuto gli avrebbe attribuito Cass. 8889/2011 14574/2010 11131/2003 . D'altra parte, la risoluzione del contratto di appalto, nel caso confermata dalla sentenza impugnata, non si sottrae alla disciplina disposta dall'articolo 1458 cod. civ. onde, non ricorrendo i casi specificamente regolati dalla legge articolo 1666, 1671, 1677 cod. civ. , e non potendo l'appalto annoverarsi tra i contratti ad esecuzione continuata o periodica, non può neppure negarsi efficacia retroattiva alla declaratoria di risoluzione del rapporto. La quale, dunque, operando la cessazione del contratto determina la estinzione delle obbligazioni che da esso derivano a carico di entrambe le parti con effetto retroattivo, e comporta che viene tolta efficacia alla causa giustificatrice delle attribuzioni patrimoniali eventualmente effettuate tra di esse. Conseguentemente, una volta pronunciata la risoluzione suddetta, in forza dell'operatività retroattiva di essa, stabilita dall'articolo 1458 cod. civ., si è verificata per ciascuno dei. contraenti ed indipendentemente dall'imputabilità dell'inadempienza, rilevante ad altri fini, una totale restitutio in integrum e, pertanto, tutti gli effetti del contratto di appalto sono venuti meno e con essi tutti i diritti che ne sarebbero derivati e che si considerano come mai entrati nella sfera giuridica dei contraenti stessi Cass. 12468/2004 7470/2001 e, venuto meno il rapporto negoziale, e con esso il titolo giustificativo della loro attribuzione, la sentenza impugnata più non poteva esaminare le riserve dell'impresa formulate nel corso della sua esecuzione qualunque ne fosse l'oggetto , né porsi alcuna questione della loro fondatezza posto che le stesse, pur se attinenti al provvedimento di sospensione dei lavori, presuppongono invece un contratto di appalto valido ed operante, data la funzione peculiare di far valere verso l'amministrazione committente diritti o pretese di maggiori compensi per la sua avvenuta esecuzione, rispetto al prezzo contrattuale originario Cass.2395/1989 . Proprio a questi principi si è attenuta la Corte di appello, la quale ha correttamente concluso che in conseguenza della risoluzione dell'appalto più non poteva discutersi dei diritti e delle obbligazioni delle parti nascenti dal contratto conferimenti, lavori eseguiti, maggiorazioni, riserve, sospensioni ecc. , né dei crediti anche risarcitori e dei debiti maturati a favore e/o a carico di ciascuna di esse per effetto della sua avvenuta esecuzione, né tanto meno della loro reale consistenza posto che le stesse presuppongono invece un contratto di appalto fino alla conclusione valido ed operante, e che invece, intervenuta la sua caducazione giudiziale, la disciplina di detti diritti ed obblighi predisposta dalle parti, nonché dei corrispettivi a ciascuna di esse spettanti, oggetto esclusivo di questo giudizio, è sostituita con quella introdotta dalla ricordata norma dell'articolo 1458 cod.civ. Cass.22520 e 22521/2011 8247/2009 . Il rigetto di entrambi i ricorsi induce il Collegio a dichiarare interamente compensate tra le parti le spese del giudizio di legittimità. P.Q.M. La Corte, rigetta i ricorsi e dichiara interamente compensate tra le parti le spese processuali.