Sottotetto: come superare la presunzione di condominialità?

Per superare la presunzione di condominialità del sottotetto occorre provare l’esistenza di un titolo esclusivo.

La sentenza 20038 del 6 ottobre 2016 della Seconda Sezione della Corte di Cassazione espone un interessante principio giuridico in tema di disciplina delle parti comuni dell’edificio condominiale. Il caso. Nel caso in questione due condomini avevano convenuto in giudizio l’originaria proprietaria dello stabile, la quale si era riservata la proprietà esclusiva del sottotetto del palazzo, per ottenere dal giudice una sentenza che dichiarasse il diritto d’uso del sottotetto da parte di tutti i condomini in quanto parte comune dello stabile. La convenuta, invece, si difendeva affermando di avere trattenuto la proprietà esclusiva del sottotetto al momento della vendita dei singoli appartamenti. Il Tribunale accoglie la richiesta degli attori e riconosce il sottotetto come parte comune. In particolare il giudice aveva riconosciuto come parti comuni sia il sottotetto che i locali siti al piano interrato, dei quali si era ingiustamente appropriata la convenuta. La parte soccombente, quindi, proponeva appello alla predetta sentenza, affermando come i locali sopra citati non rientrassero nel novero di quelli previsti dall’articolo 1117 del codice civile e in ragione di ciò non potessero essere considerati parti comuni. Inoltre, ribadiva l’appellante, ella si era espressamente riservata la proprietà di tutte le parti non condominiali nei contratti di alienazione degli immobili ai nuovi proprietari e in ragione di ciò il sottotetto e le cantine sarebbero stati di sua esclusiva proprietà. La Corte d’appello rigetta la domanda dell’appellante. In particolare la Corte motivava la propria sentenza sulla base dell’assenza di prova che avrebbe dovuto essere fornita dalla appellante al fine di dare prova del titolo esclusivo sulle parti di edificio sopra menzionate. A seguito del secondo grado di giudizio l’originaria proprietaria del palazzo ricorreva in Corte di Cassazione, al fine di ottenere la riforma della sentenza di appello. Sottotetto parte comune o privata? La Cassazione rigetta in toto il ricorso e conferma l’operato della Corte d’appello. In particolare il ricorso della parte soccombente in appello era basato su due motivi di diritto. Il primo verteva sul mancato annoveramento del sottotetto nell’elenco di cui all’articolo 1117 c.c. e da ciò sarebbe derivata la necessità di un preciso accertamento delle caratteristiche del bene per definire la sua qualità di parte comune o privata. Secondo la ricorrente la Corte d’appello avrebbe errato a valutare l’incombenza dell’onere probatorio sul giudizio in quanto, a suo dire, sarebbe spettato ai condomini provare che il sottotetto era parte condominiale e non privata. Come secondo motivo, inoltre, la ricorrente si doleva che la Corte d’appello non avesse accertato se le caratteristiche sostanziali e strutturali del sottotetto lo destinassero in via oggettiva ad essere una parte comune. Come anticipato la Corte di Cassazione rigettava entrambi i motivi di doglianza, sottolineando importanti principi nell’annosa questione della proprietà del sottotetto dello stabile. La presunzione di condominialità. La Corte infatti ribadiva il principio in ragione del quale la proprietà del sottotetto debba essere determinata mediante il titolo o – in mancanza – mediante la presunzione di condominialità dello stesso imposta dall’articolo 1117 c.c Secondo la Suprema Corte infatti tale presunzione è in ogni caso applicabile nel caso in cui il vano, per le sue caratteristiche strutturali e funzionali, risulti oggettivamente destinato all’uso comune oppure all’esercizio di un servizio di interesse condominiale, quando tale presunzione non sia superata dalla proprietà esclusiva . Nel caso in oggetto, quindi, le caratteristiche strutturali del sottotetto portavano inequivocabilmente a definirlo come parte comune, dato che questo era destinato ad uso comune. Viceversa, quando questo fosse destinato all’esclusiva funzione di isolare e proteggere dal caldo, dal freddo e dall’umidità l’appartamento dell’ultimo piano, e non abbia dimensioni e caratteristiche strutturali tali da consentirne l’utilizzazione come vano autonomo, va considerato come pertinenza di tale appartamento . Concludeva quindi la Cassazione affermando come la determinazione o meno dell’uso comune spetti al giudice di merito e non possa essere contestata in sede di legittimità salvo che questo non abbia omesso di considerare degli elementi di fatto. Il sottotetto, quindi, è presunto come condominiale quando anche potenzialmente possa essere destinato ad un uso comune o all’esercizio di un servizio di comune interesse.

Corte di Cassazione, sez. II Civile, sentenza 6 luglio – 6 ottobre 2016, n. 20038 Presidente Migliucci – Relatore Matera Svolgimento del processo Con atto di citazione notificato il 3-2-1990 G.G. e F.A. , premesso di essere proprietari in regime di comunione legale dell’appartamento sito in OMISSIS , secondo piano, e del posto auto al piano interrato, assumevano che erano di proprietà comune tutte le parti della palazzina destinate all’uso e al godimento di tutti i condomini e che, invece, l’originaria proprietaria e committente la costruzione dell’edificio, E.R. , non consentiva loro l’uso comune di dette parti, ad eccezione della scala. Gli attori, pertanto, convenivano dinanzi al Tribunale di Roma la E. e C.A. , costruttore dell’edificio, chiedendo dichiararsi il loro diritto all’uso delle parti comuni, e chiedendo altresì la redazione del regolamento condominiale e delle tabelle millesimali. Integrato il contraddittorio nei confronti di P.O.A. e P.O.O. , ai quali E.R. aveva donato le parti di edificio di sua proprietà, con sentenza in data 152-2003 il Tribunale adito accoglieva la domanda, dichiarando condominiali le parti di edificio di cui all’art. 1117 c.c. - e segnatamente i locali sottotetto e quelli al piano interrato -, con esclusione di quelle che la E. si era riservata in esclusiva proprietà nel preliminare inter partes del 31-1-1979 dichiarava il difetto di legittimazione passiva di C.A. dichiarava inammissibili le domande relative alla redazione del regolamento condominiale e delle tabelle millesimali. Avverso la predetta decisione proponevano appello E.R. , P.O.A. e P.O.O. , deducendo, in particolare, che il C.T.U. non aveva evidenziato una destinazione all’uso comune dei locali sottotetto che tali locali non rientravano tra le parti comuni previste dall’art. 1117 c.c. che nel preliminare inter partes del 31-1-1979 era fatta espressa riserva di proprietà esclusiva a favore della E. di tutte le parti non condominali e che, pertanto, l’acquisto si era perfezionato in ordine all’appartamento, al posto auto e alle parti necessariamente comuni. Con sentenza in data 18-5-2011 la Corte di Appello di Roma rigettava il gravame. Per la cassazione di tale sentenza hanno proposto ricorso E.R. , P.O.A. e P.O.O. , sulla base di due motivi. G.G. e Fioretti Adriana hanno resistito con controricorso. C.A. , già contumace in grado di appello, non ha svolto attività difensive. In prossimità dell’udienza i ricorrenti hanno depositato una memoria ex art. 378 c.p.c Motivi della decisione 1 Con il primo motivo i ricorrenti lamentano la violazione e falsa applicazione degli arti. 1117, 1362, 1363, 1364, 1365, 1366, 2697 c.c., 115 c.p.c Deducono, in particolare a che nel caso di sottotetto non opera la presunzione di condominalità prevista dall’art. 1117 c.c. e che, conseguentemente, è necessario uno specifico accertamento di fatto delle caratteristiche oggettive del bene, per determinarne la natura privata o comune. La Corte di Appello, al contrario, ha affermato la comunione del sottotetto di cui si discute senza verificare se, tenuto conto delle sue caratteristiche strutturali, esso potesse considerarsi oggettivamente destinato, sia pure potenzialmente, all’uso comune e all’esercizio di un servizio di interesse condominiale b che la Corte di Appello, nel ritenere insufficiente la prova fornita dai convenuti preliminare di vendita per dimostrare la proprietà esclusiva, non ha fatto corretta applicazione del principio dell’onere della prova gravava, infatti, sugli attori l’onere della prova per titoli della condominialità del sottotetto, e non sui convenuti l’onere di provarne la riserva di proprietà esclusiva c che, nell’interpretare il preliminare di vendita intercorso tra le parti, il giudice del gravame è incorso nella violazione degli artt. 1362 e 1363 c.c., essendo evidente che intenzione delle parti era quella di escludere dalla vendita ogni altra porzione del fabbricato diversa da quelle espressamente cedute, costituite dall’appartamento e dal posto auto. 2 Con il secondo motivo i ricorrenti si dolgono dell’omessa e contraddittoria motivazione su un punto decisivo della controversia, non avendo la Corte di Appello accertato se il locale sottotetto, per le sue caratteristiche sostanziali e strutturali, fosse oggettivamente destinato all’uso comune o all’esercizio di un servizio di interesse condominiale. Deducono che non solo tale indagine è mancata, ma che dalla relazione di consulenza tecnica d’ufficio si evince che, all’atto dei sopralluoghi, il locale in questione non era stato obiettivamente destinato ad un uso comune, presentandosi privo di qualsiasi rifinitura pavimentazione, intonaci, impianti e tramezzatura . Sostengono che nessuna rilevanza può attribuirsi, ai fini che qui interessano, né alla previsione del progetto né alla intervenuta modifica di destinazione di cui all’atto d’obbligo richiamato nella sentenza impugnata, non essendosi in presenza di atti negoziali aventi effetti giuridici tra le parti e, quindi, idonei a dimostrare la loro comune volontà di attribuire al bene controverso natura di bene comune. 3 Il primo motivo è infondato. Secondo i principi affermati dalla giurisprudenza, l’appartenenza del sottotetto di un edificio va determinata in base al titolo, in mancanza o nel silenzio del quale, non essendo esso compreso nel novero delle parti comuni dell’edificio essenziali per la sua esistenza o necessarie all’uso comune, la presunzione di comunione ex art. 1117 c.c. è, in ogni caso, applicabile nel caso in cui il vano, per le sue caratteristiche strutturali e funzionali, risulti oggettivamente destinato all’uso comune oppure all’esercizio di un servizio di interesse condominiale, quando tale presunzione non sia superata dalla prova della proprietà esclusiva Cass. 11-1-2016 n. 233 Cass. 19-2-2013 n. 4083 Cass. 29-12-2004 n. 24147 Cass. 1912-2002 n. 18091 . Più in particolare, è stato precisato che, in tema di condominio, per accertare la natura condominiale o pertinenziale del sottotetto di un edificio, in mancanza del titolo, deve farsi riferimento alle sue caratteristiche strutturali e funzionali, sicché, quando il sottotetto sia oggettivamente destinato anche solo potenzialmente all’uso comune o all’esercizio di un servizio di interesse comune, può applicarsi la presunzione di comunione ex art. 1117, comma 1, c.c. viceversa, allorché il sottotetto assolva all’esclusiva funzione di isolare e proteggere dal caldo, dal freddo e dall’umidità l’appartamento dell’ultimo piano, e non abbia dimensioni e caratteristiche strutturali tali da consentirne l’utilizzazione come vano autonomo, va considerato pertinenza di tale appartamento Cass. 30-3-2016 n. 6143 Cass. 12-8-2011 n. 17249 . Nella specie, la Corte di Appello, nel ritenere applicabile ai locali sottotetto in contestazione la presunzione di comunione ex art. 1117 c.c., non si è discostata dagli enunciati principi, avendo dato atto che i predetti locali erano originariamente indicati nel progetto come locali di sgombero , che successivamente la loro destinazione è stata modificata come locali destinati a stenditoio e ripostiglio e che con tale destinazione gli stessi sono stati fatti oggetto dell’atto d’obbligo del 7-2-1984, con il quale la E. si impegnava al mantenimento della destinazione e della consistenza di tali locali con il Comune di Roma, al fine di ottenere la licenza di abitabilità per gli appartamenti della palazzina. Orbene, secondo il giudice del gravame, sia in forza della previsione del progetto che dell’intervenuta modifica, la destinazione dei locali in questione può essere ricondotta nella previsione dell’art. 1117 c.c. con la conseguenza che sarebbe spettato ai convenuti dare prova di un titolo che ne riservasse loro la proprietà. Secondo quanto accertato in sentenza, al contrario, tale titolo non può essere individuato nella clausola del contratto preliminare intercorso tra le parti, che prevedeva la generica riserva in favore della E. di tutte le parti non condominiali, senza alcuna specifica indicazione del locali controversi. Non sussiste, pertanto, la dedotta violazione dell’art. 1117 c.c., avendo la Corte di Appello ritenuto la natura condominiale del sottotetto dopo avere accertato, con apprezzamento in fatto non sindacabile in questa sede, che tale bene era destinato, anche solo potenzialmente, all’uso comune o all’esercizio di un servizio di interesse comune. Avendo accertato che i locali in oggetto erano destinati all’uso comune e ricadevano, pertanto, nella presunzione di cui all’art. 1117 c.c., d’altro canto, correttamente il giudice del gravame ha ritenuto che gravasse sui convenuti l’onere di provare l’esistenza di un titolo idoneo al superamento della presunzione di proprietà comune sicché la pronuncia impugnata non ha affatto violato i principi posti in materia di onere della prova dall’art. 2697 c.c Quanto alla denunciata violazione degli artt. 1362 ss. c.c., si osserva che la Corte di Appello, nell’escludere che con il contratto preliminare la promittente venditrice abbia inteso riservarsi la proprietà del sottotetto in questione, ha fornito una interpretazione plausibile e ragionevole della volontà negoziale. Deve, allora, rammentarsi che, in tema di interpretazione del contratto, l’accertamento della volontà degli stipulanti, in relazione al contenuto del negozio, si traduce in un’indagine di fatto affidata in via esclusiva al giudice di merito. Ne consegue che tale accertamento è censurabile in sede di legittimità soltanto nel caso in cui la motivazione risulti talmente inadeguata da non consentire di ricostruire l’”iter logico seguito dal giudice per attribuire all’atto negoziale un determinato contenuto, oppure nel caso di violazione delle norme ermeneutiche. La denuncia di quest’ultima violazione esige una specifica indicazione dei canoni in concreto non osservati e del modo attraverso il quale si è realizzata la violazione, mentre la denunzia del vizio di motivazione implica la puntualizzazione dell’obiettiva deficienza e contraddittorietà del ragionamento svolto dal giudice di merito, non potendo nessuna delle due censure risolversi in una critica del risultato interpretativo raggiunto dal giudice, che si sostanzi nella mera contrapposizione di una differente interpretazione tra le tante v. Cass. 13-12-2006 n. 26683 Cass. 23-8-2006 n. 18375 Cass. 2-5-2006 n. 10131 . Va ulteriormente puntualizzato che, per sottrarsi al sindacato di legittimità, quella data del giudice del merito al contratto non deve essere l’unica interpretazione possibile, o la migliore in astratto, ma una delle possibili e plausibili interpretazioni, sì che quando di una clausola contrattuale siano possibili due o più interpretazioni, non è consentito, alla parte che aveva proposto la interpretazione poi disattesa dal giudice del merito, dolersi in sede di legittimità che sia stata privilegiata l’altra Cass. 12-7-2007 n. 15604 Cass. 22-22007 n. 4178 Cass. 14-11- 2003 n. 17248 . Nella specie, i ricorrenti sostengono l’erroneità della ricostruzione della volontà delle parti operata dal giudice del gravame ma, al di là del generico riferimento alle norme codicistiche indicate in rubrica, non specificano, in concreto, in quale modo la Corte di Appello si sia discostata dai canoni ermeneutici di cui lamentano la violazione. È evidente, allora, che le censure mosse, attraverso lo schermo delle dedotte violazioni di legge, finiscono con l’investire sostanzialmente il risultato dell’operazione interpretativa compiuta dal giudice di merito, non sindacabile i? sede di legittimità, in quanto sorretto da una motivazione immune da vizi logici e giuridici. 4 Anche il secondo motivo di ricorso deve essere disatteso. La valutazione espressa nella sentenza impugnata riguardo alla destinazione ad uso comune del sottotetto di cui si discute, costituisce espressione di un apprezzamento in fatto riservato al giudice di merito, che, in quanto sorretto da argomentazioni esenti da vizi logici, si sottrae al sindacato di questa Corte. E, in realtà, le censure mosse con il motivo in esame, attraverso la formale denuncia di vizi di motivazione, si risolvono, in buona sostanza, nella richiesta di un rinnovato esame delle emergenze processuali, di cui i ricorrenti suggeriscono una lettura diversa rispetto a quella compiuta dal giudice di appello. Ma, come è noto, i vizi di motivazione denunciabili in Cassazione ai sensi dell’art. 360 n. 5 c.p.c. non possono consistere nella difformità dell’apprezzamento dei fatti e delle prove dato dal giudice del merito rispetto a quello preteso dalla parte, perché spetta solo a detto giudice individuare le fonti del proprio convincimento, valutare le prove, controllarne l’attendibilità e la concludenza, scegliere tra le risultanze istruttorie quelle ritenute idonee a dimostrare i fatti in discussione, dare prevalenza all’uno o all’altro mezzo di prova tra le tante v. Cass. 14-10-2010 n. 21224 Cass. 5-3-2007 n. 5066 Cass. 21-4-2006 n. 9368 Cass. 20-4-2006 n. 9234 Cass. 16-2-2006 n. 3436 Cass. 20-10- 2005 n. 20322 . L’onere di adeguatezza della motivazione, inoltre, non comporta che il giudice del merito debba occuparsi di tutte le allegazioni delle parti, né che egli debba prendere in esame, al fine di confutarle o condividerle, tutte le argomentazioni da queste svolte. È, infatti, sufficiente che il giudice esponga, anche in maniera concisa, gli elementi in fatto ed in diritto posti a fondamento della sua decisione, dovendo ritenersi per implicito disattesi tutti gli argomenti, le tesi e i rilievi che, seppure non espressamente esaminati, siano incompatibili con la soluzione adottata e con l’iter argomentativo seguito tra le tante v. Cass. 20-11-2009 n. 24542 Cass. 12-1-2006 n. 407 Cass. 2 agosto 2001, n. 10569 . Nel caso in esame, il giudice del gravame ha selezionato gli elementi che lo inducevano a ritenere che il sottotetto avesse una destinazione ad uso comune, e in base ad essi ha argomentato la propria decisione, con ciò mostrando di attribuire a quelle risultanze valore preminente rispetto ad altre che, sebbene non esplicitamente confutate, sono state implicitamente considerate non probanti. 5 Per le ragioni esposte il ricorso deve essere rigettato, con conseguente condanna dei ricorrenti al pagamento delle spese sostenute dai resistenti nel presente giudizio di legittimità, liquidate come da dispositivo. P.Q.M. La Corte rigetta il ricorso e condanna i ricorrenti al pagamento delle spese, che liquida in Euro 2.700,00, di cui Euro 200,00 per esborsi, oltre accessori di legge.