La rinuncia alla domanda non fa venir meno l’effetto interruttivo istantaneo ma solo quello permanente

La rinuncia in corso di causa ad una delle domande è equiparabile, ai fini dell’applicabilità dell’art. 2945 c.c. applicabile anche in materia di usucapione ai sensi dell’art. 1165 c.c. , all’ipotesi estintiva determinata dalla rinuncia agli atti del giudizio ex art. 306 c.p.c., e, pertanto, comporta il venir meno dell’effetto interruttivo permanente alla prescrizione lasciando salva solo l’interruzione istantanea prodotta dalla domanda rinunciata.

Ad affermarlo è la Corte di Cassazione, nella sentenza n. 27044 del 3 dicembre 2013. Comunione ereditaria ed usucapione dei beni ereditari. La pronuncia in rassegna interviene su un aspetto di indubbio interesse riguardante l’usucapione di beni facenti parte della comunione ereditaria ed in particolare gli effetti interruttivi del possesso. Nella fattispecie in esame, alla domanda di divisione della comunione ereditaria si opponeva uno dei figli del de cuius , escluso dall’eredità, deducendo che parte dei beni oggetto del giudizio di divisione erano da lui stati acquisiti per usucapione. Sia in primo che in secondo grado la domanda di accertamento dell’acquisto per usucapione veniva rigettata, e sul punto veniva quindi interposto ricorso per Cassazione. Tra i vari motivi di ricorso prospettati, tutti rigettati dalla Corte, preme in questa sede segnalare quello riguardante gli effetti interruttivi del termine per usucapire da riconoscersi alla domanda giudiziale poi rinunciata. Il ricorrente deduceva infatti che la rinuncia alla domanda giudiziale formulata in precedenza dal coerede importasse il venir meno dell’effetto interruttivo del possesso ai fini dell’usucapione, dovendosi quindi considerare unitariamente il periodo utile ai fini dell’usucapione, come se la domanda giudiziale non fosse mai stata promossa. Interruzione del possesso e rinuncia alla domanda giudiziale. Al riguardo al Corte disattente il motivo di ricorso, riguardante come visto gli effetti interruttivi da riconoscere alla domanda giudiziale successivamente rinunciata, ed afferma – in linea con precedenti pronunce di legittimità – che la rinuncia in corso di causa ad una delle domande è equiparabile, ai fini dell’applicabilità dell’art. 2945 c.c. applicabile anche in materia di usucapione ai sensi dell’art. 1165 c.c. , all’ipotesi estintiva determinata dalla rinuncia agli atti del giudizio ex art. 306 c.p.c., e, pertanto, comporta il venir meno dell’effetto interruttivo permanente alla prescrizione lasciando salva solo l’interruzione istantanea prodotta dalla domanda rinunciata. In applicazione di tale principio, la Corte esclude che la rinuncia alla domanda giudiziale faccia venir meno tutti gli effetti interruttivi del possesso utile all’usucapione, rimanendo invece salvi gli effetti interruttivi istantanei, con la conseguenza che anche a fronte di tale rinuncia il termine per usucapire si deve comunque ritenere interrotto.

Corte di Cassazione, sez. II Civile, sentenza 22 ottobre - 3 dicembre 2013, n. 27044 Presidente Triola – Relatore Matera Svolgimento del processo Con atto di citazione notificato il 9-5-1985 D.P. conveniva dinanzi al Tribunale di Roma C.A. , D.U. , D.C. , D.A. e D.V. , per sentir procedere allo scioglimento della comunione degli immobili caduti nella successione ereditaria di D'.Vi. , deceduto in data , secondo le disposizioni contenute nel testamento pubblicato il 26-9-1975. L'attore deduceva che con tale atto il de cuius aveva nominato usufruttuaria di tutti i beni la moglie C.A. , lasciando a titolo di prelegato al figlio P. la casa rustica in omissis , con adiacente terreno di mq. 2000, e attribuendo la restante proprietà per un terzo ciascuno ai figli P. e U. , nonché ai nipoti A. , C. e V. , figli dell'altro figlio D. , escluso dall'eredità per molivi a lui ben noti . Affermava che D.D. , il quale si trovava in possesso dei beni ereditari, rifiutava di procedere alla divisione, di rendere conto della gestione e di corrispondere l'usufrutto alla madre. Si costituivano D.A. , C. e V. , deducendo che il patrimonio del de cuius era stato salvato grazie ad interventi ed esborsi del padre D. , il quale aveva compiuto anche a sue spese miglioramenti ed addizioni sui terreni e sui fabbricati. Essi facevano presente di avere contribuito con il padre alla cura, manutenzione e miglioramento degli immobili e chiedevano, pertanto, che, integrato il contraddittorio nei confronti di D.D. , si stabilisse in quale misura i beni appartenessero o fossero stati acquisiti per usucapione o per altro titolo a quest'ultimo o ai convenuti, e si procedesse alla divisione ereditaria delle restanti porzioni o quote di beni. Disposta con ordinanza collegiale del 13-4-1990 l'integrazione del contraddittorio nei confronti di D.D. , quest'ultimo si costituiva deducendo che aveva collaborato nell'azienda paterna, di cui deteneva il possesso continuo e indisturbato dal 1963 che gli immobili oggetto di controversia erano stati assoggettati a procedure esecutive e da lui riscattati, nel disinteresse dei fratelli che D.V. non gli aveva restituito le somme impiegate per il salvataggio del patrimonio che egli aveva esercitato il possesso sui beni siti alla località , acquisendoli per usucapione che sul complesso dei beni era stata costituita un'impresa agricola familiare. D.D. chiedeva, conseguentemente, che venisse accertata la sua proprietà relativamente ai predetti beni, per averli riscattati dalle procedure esecutive, o comunque per averli acquisiti per usucapione che venisse dichiarato che i beni stessi facevano parte di impresa agricola familiare e che, in via. subordinata, si accertasse l'acquisto per usucapione da parte di tale impresa, individuandosi la residua parte dei beni su cui poteva ritenersi realizzata la comunione ereditaria. Con sentenza non definitiva del 14-7-1999 il Tribunale rigettava la domanda di accertamento dell'acquisto per usucapione dei beni siti in località omissis , proposta da D.D. e dai figli, in proprio e quali appartenenti ad impresa familiare rigettava la domanda di accertamento dell'acquisto dei medesimi beni per riscatto nel corso delle procedure esecutive, proposta dalle stesse parti accertava la comunione ereditaria tra D.P. , U. e D. , in ragione di 1/3 ciascuno, sulla nuda proprietà degli immobili indicati nella stessa sentenza. Avverso la predetta decisione proponevano appello D.D. e i figli A. , C. e V. . Il processo, interrotto per la morte dell'attore, veniva riassunto dagli appellanti, anche nella qualità di eredi di C.A. , nei confronti degli eredi di D.P. . Si costituivano, in tale qualità, D.L. e R.G. , concludendo per il rigetto dell'appello. Con sentenza in data 26-6-2007 la Corte di Appello di Roma, in parziale riforma della sentenza impugnata, nel dare atto che C.A. era deceduta il OMISSIS , dichiarava estinto l'usufrutto alla stessa spettante sui beni costituenti l'eredità di D'.Vi. rigettava per il resto il gravame e condannava gli appellanti al pagamento delle spese del grado. Per la cassazione di tale sentenza hanno proposto ricorso D.C. , A. e V. , in proprio e quali eredi di D.D. e di C.A. , nonché quali componenti dell'impresa familiare coltivatrice, sulla base di sei motivi. D.L. e R.G. , quali eredi di D.P. , hanno resistito con controricorso. I ricorrenti hanno depositato una memoria ex art. 378 c.p.c. e, all'esito della discussione orale svoltasi in udienza, osservazioni scritte sulle conclusioni del Procuratore Generale. Motivi della decisione 1 Con il primo motivo i ricorrenti denunciano vizi di motivazione in ordine alla ritenuta mancanza di prova del possesso dei beni per cui è causa in capo a D.D. . Deducono, in particolare, che la Corte di Appello ha desunto in modo illogico dalla intestazione fatta dal P. a D.V. la prova della capacità d'intendere e di volere di quest'ultimo e dell'esercizio del possesso ad opera dal medesimo, ha erroneamente ritenuto che lo scritto del 1965 confermasse il permanere del possesso in capo al de cuius , ed ha immotivatamente negato l'ammissione della prova articolata dai convenuti in ordine al pieno possesso esercitato da D.D. . Con il secondo motivo i ricorrenti lamentano vizi di motivazione in ordine al mancato riconoscimento dell'acquisto, da parte di D.D. , della proprietà dei beni per usucapione. Sostengono che la Corte di Appello non ha considerato che nel periodo compreso tra l'aprile 1963, epoca in cui D.D. ha iniziato a possedere i beni paterni, e il 2-10-1978, data in cui D.P. ha notificato il primo atto di citazione, era decorso il termine di usucapione breve ex art. 1159 bis c.c. e che, avendo D.P. rinunciato alla prima citazione, al momento della notifica della seconda citazione, avvenuta l'8-5-1985, era decorso anche il termine di usucapione ventennale. In ogni caso, secondo i ricorrenti, il giudice del gravame avrebbe dovuto dare atto del compimento del termine di prescrizione quanto meno sulla quota di un terzo spettante a D.U. , il quale si era allontanato da tempo dall'Italia, rinunciando ad ogni forma di partecipazione alla divisione ereditaria e non contrastando il possesso di D. . Con il terzo motivo i ricorrenti si dolgono della violazione dell'art. 48 della l. 3-5-1982 n. 203 e degli artt. 535 e 1140 c.c Sostengono che la sentenza impugnata è incorsa nella violazione dell'art. 48 della l. 3-5-1982 n. 203, nel ritenere che, a differenza dell'impresa collettiva, esercitata a mezzo di società semplice, l'impresa familiare appartiene solo al suo titolare, mentre i familiari partecipanti hanno diritto solo ad una quota degli utili. La norma citata, infatti, configura l'impresa familiare coltivatrice come ente collettivo, munito di soggettività e quindi capace di titolarità. Deducono, inoltre, che il giudice di appello ha erroneamente affermato che l'impresa familiare può essere destinataria solo di rapporti di mera detenzione, inidonei all'acquisto per usucapione. Con il quarto motivo i ricorrenti lamentano vizi di motivazione in ordine alla ritenuta insussistenza negli appellanti dei requisiti occorrenti per la formazione della impresa familiare coltivatrice ed all'affermazione secondo cui l'efficacia interruttiva dell'atto di citazione del 1978 ha operato anche nei confronti dell'impresa familiare. Deducono che la Corte di Appello non ha tenuto conto del fatto, non contestato dalle controparti, che i beni per cui è causa sono stati coltivati e portati a crescente produttività da D.D. e dalla sua famiglia, costituitasi in impresa familiare agricola. Il giudice del gravame, inoltre, non ha considerato che il primo atto di citazione notificato a D.D. e agli altri convenuti non conteneva alcun cenno alla soggettività collettiva costituita dalla impresa familiare agricola e non poteva, quindi, produrre effetti interruttivi nei confronti di quest'ultima. Con il quinto motivo i ricorrenti denunciano il travisamento del terzo motivo di appello e delle domande avanzate in primo grado dai ricorrenti, nonché la violazione degli artt. 1140, 1150, 535 c.c. e 48 l. 203/1982, in relazione all'affermazione secondo cui l'attore non aveva accettato il contraddittorio sulle richieste creditorie formulate dagli appellanti all'udienza di conclusioni di primo grado del 2-7-1996. Rilevano che tale affermazione risulta smentita per tabulas , in quanto il difensore di D.P. , presente in tale udienza, nulla aveva contestato ed eccepito. Sostengono, pertanto, che, essendo le predette domande già entrate a far parte della vicenda processuale, nessun rilievo può assumere la successiva comparsa conclusionale del 5-2-1999, con la quale l'altro procuratore costituitosi per l'attore ha dichiarato di non accettare il contraddittorio su di esse. Con il sesto motivo, infine, i ricorrenti si dolgono della violazione degli artt. 112, 113, 115 cpc. Deducono che la Corte di Appello ha omesso di pronunciare su tutte le domande e sulle istanze istruttorie formulate dai convenuti e dal chiamato in causa in sede di conclusioni, ha travisato le risultanze delle prove assunte ed ha erroneamente ritenuto irrilevante la richiesta di consulenza tecnica d'ufficio, volta alla determinazione del valore degli apporti arrecati ai beni ereditari da D.D. e dall'impresa familiare coltivatrice. 2 Il primo motivo non è meritevole di accoglimento. La Corte di Appello ha dato adeguato conto delle ragioni per le i quali, condividendo il giudizio già espresso dal Tribunale, ha ritenuto che non fosse possibile ravvisare nella condotta di D.D. i presupposti del possesso dei beni con esclusione del padre. In particolare, il giudice del gravame ha rilevato che la ricognizione di debito del 15-5-1965, invocata dagli appellanti, presupponeva che il possesso degli immobili per i quali gli interventi erano stati compiuti continuava ad essere esercitato da D.V. , il quale per tale ragione si riconosceva debitore del figlio. Ha altresì evidenziato che la circostanza dedotta nei capitoli di prova testimoniale dai convenuti, secondo cui il P. , dopo aver ricevuto la somma di lire 6.000.000 da D.D. , aveva, d'intesa con D.V. , reintegrato quest'ultimo nei beni, si poneva in contrasto con la ipotizzata incapacità d'intendere e di volere di D'.Vi. e con la mancanza nello stesso di un anitnus possidendi , ed andava valutata a discapito di D.D. , il quale non aveva reagito alla iniziativa del P. e del padre. A fronte di tali argomentazioni, scevre da vizi logici e come tali non censurabili in sede di legittimità, i ricorrenti, con il motivo in esame, ripropongono sostanzialmente gli stessi assunti difensivi già prospettati nei precedenti gradi di giudizio, secondo cui D.D. aveva iniziato a possedere in proprio gli immobili per cui i è causa nei mesi di febbraio-aprile del 1963, allorché, nel progressivo dissestarsi del patrimonio paterno e nel grave deterioramento delle condizioni bio-fisiche del padre, era riuscito a recuperare i beni dal P. , il quale li aveva però intestati a D.V. . Le doglianze mosse, pertanto, attraverso la formale prospettazione di vizi di motivazione, tradiscono il reale intento di ottenere una nuova e più favorevole valutazione delle emergenze processuali rispetto a quella compiuta dalla Corte territoriale. Come è noto, peraltro, i vizi di motivazione denunciabili in cassazione non possono consistere nella difformità dell'apprezzamento dei fatti e delle prove dato dal giudice del merito rispetto a quello preteso dalla parte, perché spetta solo a quel giudice individuare le fonti del proprio convincimento e a tale fine valutare le prove, controllarne la attendibilità e la concludenza, scegliere tra le risultanze istruttorie quelle ritenute idonee a dimostrare i fatti in discussione, dare prevalenza all'uno o all'altro mezzo di prova tra le tante v. Cass. 14-10-2010 n. 21224 Cass. 5-3-2007 n. 5066 Cass. 21-4-2006 n. 9368 Cass. 20-4-2006 n. 9234 Cass. 16-2-2006 n. 3436 Cass. 20-10- 2005 n. 20322 . Nella parte in cui si duole della mancata ammissione della prova testimoniale e dell'interrogatorio formale dell'attore, inoltre, il motivo difetta di specificità, non riportando i capitoli di prova articolati e non ponendo, quindi, questa Corte nelle condizioni di esprimere una valutazione circa l'eventuale carattere di decisività dei mezzi istruttori non ammessi dal giudice di merito. 3 Il secondo motivo è infondato. Come si è rilevato, la Corte di Appello ha accertato, con apprezzamento di fatto non sindacabile in questa sede, che alla data del 15-5-1965 i beni in questione si trovavano ancora nel possesso esclusivo di D.V. . In considerazione dell'effetto interruttivo della notifica del precedente atto di citazione del 2-10-1978, pertanto, il giudice del gravame ha correttamente escluso che in favore di D.D. potesse essere maturato il tempo necessario ai fini dell'invocata usucapione. È evidente, infatti, che, essendo il dedotto possesso di Domenico sicuramente iniziato in epoca successiva al 15-5-1965, alla indicata data del 2-10-1978 non era decorso il termine breve di quindici anni previsto dall'art. 1159 bis c.c., e al momento della instaurazione del presente giudizio non si era compiuto il termine ventennale ordinario previsto dall'art. 1158 c.c Del tutto generiche, d'altro canto, appaiono le deduzioni svolte dai ricorrenti per sostenere che il primo atto di citazione era stato vanificato e posto nel nulla da quello successivo il ricorso non riporta alcun passo della citazione del 1985, idoneo a manifestare la volontà dell'attore D.P. di rinunciare alla precedente domanda giudiziale. Giova rammentare, comunque, che, secondo l'orientamento di questa Corte, la rinuncia in corso di causa ad una delle domande è equiparabile, ai fini dell'applicabilità dell'art. 2945 c.c., applicabile anche in materia di usucapione, ai sensi dell'art. 1165 c.c. , all'ipotesi estintiva determinata dalla rinuncia agli atti del giudizio ex art. 306 c.p.c. e, pertanto, comporta il venire meno dell'effetto interruttivo permanente della prescrizione, lasciando salva solo l'interruzione istantanea prodotta dalla domanda rinunciata cfr. Cass. 7-8-2003 n. 11919 Cass. 12-3-1998 n. 2712 . Nella specie, pertanto, l'eventuale rinuncia di D.P. alla precedente domanda del 1978 non farebbe venir meno l'interruzione istantanea del termine di usucapione prodotta da tale domanda, di per sé ostativa al successivo maturare dell'usucapione ventennale. Sotto altro profilo, si rileva che la Corte di Appello ha motivatamente disatteso la tesi subordinata dell'acquisto per usucapione della quota ereditaria di spettanza di D.U. , rilevando che, avuto riguardo alla natura dell'azione giudiziaria intrapresa da D.P. e al principio della concorrenza in assenza di prova contraria di pari poteri gestori in tutti i compartecipi alla comunione ereditaria deve ritenersi che l'efficacia interruttiva dell'atto sia riferibile a tutti i partecipi della comunione, ivi compreso D.U. . Tale affermazione non ha costituito oggetto di specifica censura da parte dei ricorrenti, i quali, con le deduzioni svolte, hanno riproposto in termini apodittici la tesi dell'abbandono di ogni pretesa ereditaria da parte di D.U. , già prospettata con il primo motivo di appello, nel palese ma inammissibile tentativo di ottenere da questa Corte un riesame del merito della vicenda, non consentito in sede di legittimità. 4 Il terzo e il quarto motivo di ricorso possono essere esaminati congiuntamente, per ragioni di connessione. La Corte di Appello ha rigettato il secondo motivo di gravame, diretto al riconoscimento della formazione della proprietà dell'impresa familiare e dell'acquisizione per usucapione della proprietà dei beni in capo a quest'ultima, rilevando in primo luogo che gli appellanti non avevano dedotto alcun mezzo di prova in ordine alla sussistenza dei requisiti richiesti dalla legge ai fini della costituzione di un'impresa familiare, e cioè lo svolgimento da parte del titolare di un'attività di lavoro di carattere continuativo e l'accrescimento della produttività dell'impresa procurato dal lavoro del partecipante. Ha fatto presente, comunque, che l'impresa familiare di cui all'art. 230 bis c.c. appartiene solo al suo titolare, mentre i familiari partecipanti hanno diritto solo a una quota degli utili ed ha conseguentemente affermato che, poiché secondo l'assunto degli stessi appellanti il titolare dell'impresa coltivatrice era D.D. , apparivano condivisibili i rilievi svolti dal giudice di primo grado, fondati sia sul fatto che l'impresa può essere esercitata sulla base di meri rapporti di detenzione, inidonei all'acquisto per usucapione, sia sul fatto che le medesime ragioni ostative al riconoscimento dell'acquisto per usucapione in favore di D.D. impedivano l'acquisto per usucapione da parte di detta impresa. Ciò posto, si osserva che i ricorrenti non hanno censurato specificamente l'affermazione concernente la mancata deduzione di mezzi di prova in ordine agli elementi costitutivi di un'impresa agricola familiare. Essi si sono limitati ad affermare, con il quarto motivo, che l'esistenza di un'impresa agricola familiare non era stata contestata dalle controparti ma tale asserzione risulta del tutto generica ed apodittica, non essendo accompagnata dal richiamo ad alcun atto giudiziale avversario idoneo ad avallarla. Le doglianze mosse al riguardo, pertanto, devono essere disattese. Di conseguenza, dovendosi escludere in radice, alla luce degli accertamenti contenuti nella sentenza impugnata, che tra D.D. e i suoi familiari sia stata costituita un'impresa familiare agricola, rimangono assorbite le ulteriori censure mosse con i motivi in esame, basate sul presupposto dell'esistenza di tale impresa. 5 Il quinto motivo è privo di fondamento. Secondo il costante orientamento della giurisprudenza, con riguardo a procedimento pendente alla data del 30 aprile 1995 - per il quale trovano applicazione le disposizioni degli artt. 183, 184 e 345 cpc, nel testo vigente anteriormente alla novella di cui alla legge n. 353 del 1990 art. 9 D.L. n. 432 del 1995, conv. nella legge n. 534 del 1995 -, il divieto di introdurre una domanda nuova nel corso del giudizio di primo grado risulta posto a tutela della parte destinataria della domanda. Pertanto, la violazione di tale divieto -che è rilevabile dal giudice anche d'ufficio, non essendo riservata alle parti l'eccezione di novità della domanda - non è sanzionabile in presenza di un atteggiamento non oppositorio della parte medesima, consistente nell'accettazione esplicita del contraddittorio o in un comportamento concludente che ne implichi l'accettazione. A quest'ultimo fine, l'apprezzamento della concludenza del comportamento della parte va effettuato dal giudice attraverso una seria indagine della significatività dello stesso, senza che assuma rilievo decisivo il semplice protrarsi del difetto di reazione alla domanda nuova, né potendosi attribuire, qualora questa sia formulata all'udienza di precisazione delle conclusioni, valore concludente al mero silenzio della parte contro la quale la domanda è proposta, sia essa presente, o meno, a detta udienza v. per tutte Cass. S.U. 22-5-1996 n. 4712 . Nella specie, pertanto, la Corte di Appello ha correttamente ritenuto inammissibile la domanda intesa al riconoscimento di un diritto di credito per i miglioramenti e le addizioni, proposta dai convenuti e dall’interventore all'udienza di conclusioni del 2-7-1996, stante l'espresso rifiuto di accettazione del contraddittorio manifestato nella comparsa di costituzione con nuovo difensore per D.P. . Alla luce degli enunciati principi di diritto, infatti, non può assumere di per sé alcuna rilevanza, in contrario, il mero silenzio serbato all'udienza di conclusioni dal precedente difensore dell'attore. 6 Il sesto motivo, nella parte in cui lamenta la mancata ammissione delle istanze istruttorie formulate in sede di conclusioni e l'erronea valutazione della prova testimoniale raccolta, difetta del requisito di specificità, non riportando il contenuto dei capitoli di prova non ammessi e delle dichiarazioni dei testi erroneamente interpretate dal giudice di merito, sì da porre questa Corte nelle condizioni di verificare l'esistenza dei vizi denunciati e la loro incidenza ai fini della decisione. Le censure inerenti all'omessa pronuncia sulle pretese creditizie avanzate in sede di conclusioni ed alla mancata ammissione di consulenza tecnica d'ufficio volta a quantificare i miglioramenti e le addizioni apportati agli immobili ereditari da D.D. e/o dall’impresa familiare rimangono, invece, assorbite dalle considerazioni in precedenza svolte riguardo alla mancata proposizione di una tempestiva domanda riconvenzionale diretta al riconoscimento di ragioni di credito degli appellanti nei confronti dell'eredità. 7 Per le ragioni esposte il ricorso deve essere rigettato, con conseguente condanna dei ricorrenti al pagamento delle spese sostenute dai resistenti D.L. e R.G. nel presente grado di giudizio, liquidate come da dispositivo. P.Q.M. La Corte rigetta il ricorso e condanna i ricorrenti al pagamento delle spese in favore dei resistenti, che liquida in Euro 4.200,00, di cui Euro 200,00 per esborsi, oltre accessori di legge.